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Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
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Ongaro, l’ultima a Casale e poi il pub. «Passione e amicizia, il mio rugby»

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Chiuderà la sua carriera come si usa fare nei paesi di migliore tradizione rugbistica, cioè con una partita e una festa nel club dove tutto cominciò molti anni prima. Domenica il big-match della B veneta fra Casale e Paese, già ricco di significati, avrà così un ulteriore motivo di interesse per la presenza fra i Caimani biancorossi dell’enfant du pays Fabio Ongaro, 81 volte azzurro, alle spalle tre Mondiali ed esperienze pro di livello altissimo come quella nei Saracens in Premiership.

E sabato una succosa anteprima all’auditorium cittadino, quando “Yuri” sarà intervistato dal giornalista di EuroSport Luca Tramontin, bellunese ma con un passato di giocatore proprio a Casale.

Ongaro ha finito di giocare nell’estate del 2012, dopo che l’epilogo in Nazionale si era consumato il 17 marzo precedente in occasione del successo azzurro sulla Scozia. E da un paio di mesi ha smesso anche i panni di dirigente delle Zebre per dedicarsi a tempo pieno alla gestione dei suoi due locali, il Galloway a Parma e il Gulliver Pub a Collecchio (socio in affari l’altro azzurro Totò Perugini).

Ma a questo addio con la maglia biancorossa del Casale ci teneva proprio. Dopo una carriera fra Treviso, Londra, Viadana e Parma, ecco che il cerchio si chiude. «Ho cominciato quando avevo undici anni. Da quando ne avevo quindici o sedici il mio pensiero era diventato uno solo: esordire in prima squadra al più presto. Guardavo a Ramiro Cassina, che arrivava dall’Argentina e giocava in Nazionale, con un certo timore, ma era anche un esempio da copiare e da… sorpassare. L’esordio arrivò nel 1994, in trasferta a Calvisano, avevo diciassette anni. Nell’ambiente c’era un certo sano nonnismo. I ragazzini non potevano neanche entrare nello spogliatoio della prima squadra: “Dove vatu, ceo?”. Nonnismo sano perché serviva a cementare lo spogliatoio, lo ritrovai anche a Treviso con i vari Ciccio, Cristo (Giovanni Grespan, Valter Cristofoletto). Nel gruppo si creavano legami forti. Si viveva fra i compagni e per i compagni. Oggi, coi telefonini e tutto il resto, è un’altra cosa».

Cosa ti aspetti da quest’ultima partita? «Volevo assolutamente chiudere con la maglia del mio primo club. Avrei preferito fosse a primavera, ma dopo tanti rinvii con Casale abbiamo deciso per domenica. Mi sono tesserato venti giorni fa, ha fatto allenamento venerdì scorso e un altro lo farò domani. Giocherò terza linea, il mio primo ruolo. So che si tratta di una partita delicata, è un derby e una sfida di alta classifica. Mi metto a disposizione dell’allenatore Gianni Zaffalon (ex Paese, ndr). In campo voglio rispettare l’impegno fino in fondo. Poi ci beviamo una birra tutti insieme».

Vent’anni di carriera, dunque. «Eh già, il campo dà emozioni che, purtroppo, non potrò più rivivere…» Sospirone. «Certo mi ritengo fortunato. Ho avuto molte soddisfazioni e qualcosa è andato storto, ma alla fine dal rugby ho avuto tantissimo. Soprattutto molti amici, molto divertimento. Un’amicizia come quella con Tronky (Alessandro Troncon), ma anche tante altre, durerà per sempre».

Dopo gli esordi a Casale, arriva la lunga esperienza nel Benetton Treviso. «Lì arriva il soprannome, Yuri, con cui qualcuno mi chiama ancora. Me lo affibbia Ivan Francescato per non confondermi con l’altro Fabio, Benvenuto, il preparatore atletica. Con Ivan, Tronky, con Piero e con il Cocco (Piero Dotto e Francesco “Cocco” Mazzariol) e con tutti gli altri, trovo una vera compagnia, una banda di ragazzi che si divertivano un mondo e che erano unitissimi. Dopo c’è un ricambio generazionale. E arriva Vittorio Munari. Agli inizi trova ostilità, è un padovano che arriva a Treviso come direttore generale e non è certo accolto con simpatia. Ma Munari porta una mentalità diversa, dà una svolta verso il professionismo del rugby. Abbiamo davvero una squadra fortissima, ci sono Parisse, Canale, Mauro Bergamasco, Franco Smith, Troncon, Goosen, Brendan Williams… E per la prima volta non ci sentiamo inferiori a nessuno: in Heineken Cup nel 2004-2005 andiamo a giocare in casa del Bath e del Leinster con l’approccio di chi può vincere e può passare il turno, non di chi va in campo per limitare i danni. Forse era un miraggio ma era importante acquisire quella mentalità. Vincemmo comunque tre partite di Heineken Cup su sei».

Nel 2000 comincia anche una lunga carriera in Nazionale. E nel 2004 c’è quella tua meta di… testa con cui nel Sei Nazioni battiamo gli scozzesi al Flaminio. «Vestire la maglia azzurra è stata ogni volta una grande emozione. Quanto alla meta contro la Scozia, l’arbitro l’assegnò subito senza neanche chiedere il TMO e meno male che è andata così: quel giorno era importantissimo vincere, non importava come. Il ricordo più bello in Nazionale? Mi viene in mente un flash. Tour 2001 in Sud Africa. Avevo già fatto qualche apparizione con l’Italia ma per la prima volta potevo giocare a fianco di Tronky. A Port Elizabeth affrontiamo gli Springboks. Nel tunnel che porta al campo incrocio lo sguardo di Tronky e gli faccio: finalmente insieme in Nazionale, per me è un sogno che si avvera. Poi prendemmo una batosta dagli Springboks, ma questa è un’altra storia. Loro erano di un altro pianeta e noi, ripensandoci oggi, molto naif, un po’ un’Armata Brancaleone al loro confronto».

Nel 2006 il passaggio ai Saracens. A Londra rimani per quattro stagioni. «Quegli anni mi hanno cambiato. Sono cresciuto. All’inizio è stata durissima, ero lontano dalla famiglia e dal mio mondo, in un altro paese, con un altra lingua, in tutto un altro rugby. Per sei mesi ho sofferto molto. Poi pian piano mi sono conquistato il mio spazio, alla fine è stato molto gratificante dimostrare di poter giocare a quel livello. Quello che credo capiti oggi ai ragazzi che sono in Premiership. La differenza che c’era allora fra rugby inglese e italiano, c’è ancora».

L’avversario più forte che hai incontrato. «In prima linea conta più l’intesa che c’è fra i giocatori, piuttosto della forza individuale. Difficile nominare un avversario diretto. Ricordo però una prima linea francese con Ibanez, De Villiers e Milloud che ci fece scomparire. Forse il 2003. E Ibanez era uno che per il fisico, a vederlo così, non gli davi una lira…»

Cosa è mancato nella tua carriera? Un rammarico particolare? «Avrei voluto provare a giocare in Francia. Per altro verso penso a mio padre, che ho perso qualche tempo fa. Non faceva parte del mondo del rugby, solo negli ultimi anni si era avvicinato vedendo qualche partita. Mi dispiace non avergli fatto conoscere di più il mio sport».

Da due mesi hai chiuso con l’esperienza di team manager delle Zebre. Un addio definitivo all’ambiente del rugby? «Ho smesso per occuparmi con più attenzione delle mie attività e soprattutto della mia famiglia, visto anche che sono in attesa del secondo bambino. Il rugby resta comunque tutta la mia vita, è gente di rugby quella che mi circonda. La scorsa settimana, per esempio, è venuto a trovarmi Eddie Jones. Non mi sento proprio come uno che ha chiuso con il rugby, è solo una pausa momentanea. Prima o poi tornerò a fare qualcosa, forse non il dirigente: mi arrabbiavo troppo, non ho il carattere giusto».

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese


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