Tutti, ma proprio tutti, possono giocare a rugby. Gli alti e i bassi, il tipo smilzo e quello più in carne, sprinter e passisti, l’esuberante e il taciturno, l’universitario di buona famiglia e il mezzo delinquente. Tutti, nessuno escluso: il messaggio del rugby integrato è questo.
Questa versione del gioco – ancora in cerca di una sua denominazione universale, ma si sta affermando la definizione di mixed ability rugby degli inglesi – si spinge un po’ più in là rispetto ad ogni esperienza di palla ovale con finalità riabilitative.
La sfida è di coinvolgere atleti con disabilità intellettive come autismo e sindrome di down, giocando comunque il solito rugby, senza particolari adattamenti (unica concessione la mischia no contest). Sfida doppia, per chi cioè si propone di integrarsi nella “normalità” e per chi è chiamato a confrontarsi con la “diversità”, ad accoglierla, a comprenderla.
«Giocare insieme invita tutti a cambiare la percezione delle barriere, di ciò che si può fare o meno», spiega il veronese Martino Corazza, protagonista a Chivasso dell’esperienza apripista del rugby integrato in Italia, «in campo siamo solo dei giocatori, tutti uguali: non ci sono segni distintivi. Poi ognuno deve trovare dentro di sè la voglia di scoprire cosa c’è di diverso nell’altro. Ma di accettare ognuno per quello che è il nostro sport lo insegna da sempre, dando spazio ad ogni tipo di fisico».
Varata nel 2010, l’avventura del rugby integrato si sta facendo strada nonostante le consuete difficoltà di ogni iniziativa pionieristica. Se il Chivasso rimane l’unica società mixed ability per statuto, esistono altre realtà che si appoggiano direttamente a strutture sanitarie, dagli Atipici di Bari a Milano, Colorno, Cremona.
Lo stesso club torinese si sta facendo promotore di una rete nazionale a partire dal basso, mettendo insieme diversi soggetti (famiglie, associazioni di genitori, centri diurni ed enti educative, scuole, ASL, istituzioni).
I contatti sono già ben avviati con gli approcci sviluppatisi nel mondo, in particolare nel Regno Unito. E’ nelle gloriose Swansea e Llanelli che è sono sorte nel 1995 la primissime squadre mixed ability, rispettivamente Gladiators e Warriors. Ability Rugby International (ARI) è il nome del board che lega le diverse esperienze nazionali.
«Il principio fondante è consentire alle persone con disabilità intellettive di prendere decisioni per loro stessi, essendo informati in maniera semplice e comprensibile, e decidere se prendere rischi in uno sport a contatto pieno come il nostro», dice Corazza, «una visione della disabilità che sia attiva e non subordinata alle decisioni altrui, legata quindi ai diritti, all’educazione permanente e all’inclusione sociale».
In Inghilterra il rugby integrato ha il sostegno della RFU, mentre sono scesi in campo testimonial di prestigio come Stuart Lancaster e i Barbarians.
Il primo Mixed Ability World Tournament, nello Yorkshire ad agosto, sarà un evento destinato a promuovere la disciplina su scala più ampia, peraltro alla vigilia dei Mondiali inglesi.
Sono attesi 400 atleti da 10 nazioni. La rappresentativa italiana sarà formata da giocatori dei club “storici” (Chivasso e Settimo Torinese, più alcuni atleti da Cremona). Per finanziare la trasferta è in corso una campagna di crowdfunding.
Previste in autunno alcune iniziative di promozione del rugby integrato in Veneto.
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