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Franco Smith, gli Springboks e le occasioni perdute del rugby italiano

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Il ritorno a Treviso era stato pensato per luglio, perché dopo intensi allenamenti su due ruote Franco Smith si era posto come obiettivo la partecipazione alla Gran Fondo Pinarello. Appuntamento rimandato, in nome ovviamente del rugby e del moltiplicarsi degli impegni di tecnico in Sud Africa. Ed oggi, dopo SuperXV e Currie Cup nello staff dei Cheetahs, l’ex allenatore del Benetton si lancia in una nuova avventura da… “docente universitario”.

«Da qualche settimana mi occupo degli Shimlas per prepararli alla prossima Varsity Cup che comincia a febbraio, un torneo di ottimo livello, la base di partenza per molti Springboks», spiega al telefono da Bloemfontein proprio a conclusione di un allenamento con la squadra di UFS, l’ateneo del Free State, «è ciò che mi piace fare di più: curare un progetto di lungo termine, per sviluppare i giovani, scoprire nuovi giocatori. Cioè far crescere la base passo dopo passo, Varsity, Currie Cup, e così rilanciare i Cheetahs in SuperXV, rivedendoli competitivi magari nel 2016».

«Treviso ci manca, era ormai la casa per tutta la mia famiglia. Ma apprezziamo anche ciò che in Italia non era possibile fare: i safari, i barbecue nei grandi spazi aperti… Franco Jr. e Jean si sono inseriti bene a scuola e naturalmente giocano a rugby, entrambi apertura. Voglio ringraziare gli allenatori delle giovanili del Benetton, perché i miei figli (rispettivamente 14 e 11 anni, ndr) si sono dimostrati già dello stesso livello rugbistico rispetto ai pari età sudafricani, forse anche un passo più avanti».

Quasi un anno è ormai trascorso dal divorzio fra il tecnico e Treviso, un anno nel quale, peraltro, il club biancoverde ha conosciuto il sapore della vittoria solo tre volte.

Resta in Franco Smith l’amarezza per quello che sente come un progetto giocoforza interrotto. «Cinque anni fa avevo sottoposto un programma per far sì che il Benetton potesse avere risultati duraturi nel tempo, era indispensabile far crescere giocatori under 23 ed inserirli progressivamente in prima squadra. Sono questi problemi di ricambio che Treviso affronta oggi. Dispiace se ripensiamo al livello che avevamo raggiunto nella terza stagione di Pro12, quando eravamo ormai in grado di giocare alla pari con ogni avversario europeo. Da un altro punto di vista è una soddisfazione vedere certi nostri ragazzi capaci di essere protagonisti nelle squadre di Premiership».

«Avrei voluto lasciare un’eredità migliore. Auguro al Benetton di cominciare a vincere al più presto, ma per costruire un gruppo, uno stile di gioco e una mentalità ci vogliono non settimane o mesi, ma anni. Lo sperimentiamo anche noi qui ai Cheetahs (solo penultimi nel Super Rugby con record 4-1-11, quinti in Currie Cup con 3-1-6, ndr), stiamo ricostruendo e sono indispensabili tempo e programmazione. Nel rugby italiano c’è molta politica, qualsiasi cosa diventa difficile da realizzare: ecco, tutto questo non mi manca proprio».

Invece 17 anni sono trascorsi da quando Franco Smith partecipò da esordiente al tour europeo degli Springboks con tappa anche a Bologna, dove gli azzurri vennero sconfitti 31-62 (ma per l’apertura di Lichtenburg il debutto in maglia verde-oro sarebbe arrivato nello straripante 68-10 di Murrayfield poco dopo, il 6 dicembre 1997). Ed è con assoluto disincanto verso le sorti dell’Italia che il sudafricano guarda al prossimo appuntamento di Padova.

«Ora come ora gli Springboks sono al di fuori della portata dell’Italia, tanto più che gli azzurri avranno prima due altri test molto duri contro Samoa e Argentina. In altre occasioni poteva succedere che il Sud Africa non si impegnasse al 100% e che la differenza si riducesse. Non questa volta. Prima del Mondiale non ci saranno che una decina di partite, Heyneke Meyer esigerà il massimo di intensità da ognuno. Bisogna fissare il gioco e per di più l’ambiente è caricatissimo dalla vittoria contro gli All Blacks. Gli Springboks sono fortissimi fisicamente, gli azzurri dovranno innanzitutto reggere l’impatto e dovranno farlo per tutti gli ottanta minuti, senza i black-out o i cali nel finale che sono tipici delle squadre italiane».

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