Nel rugby di qualche anno fa, quando in squadra ognuno portava un soprannome, Ornel Gega l’avrebbero chiamato “Roccia”. Questione di avere un fisico quadrato, fibre muscolari di una certa pasta, ma “Roccia” stava anche per un modo di essere, una certa consistenza come persona: di chi arriva al punto senza tanti fronzoli, di chi insegue i propri obiettivi con perseveranza, di chi fa senza disquisire.
«In verità tutti mi chiamano col cognome, solo Gega», spiega il tallonatore del Benetton e della Nazionale, «un soprannome non l’ho mai avuto, tranne a Mogliano dove c’era Franco Properzi (il “Kino”, ndr) che mi chiamava “Nello”…»
Classe 1990, dai tempi delle giovanili Gega era ritenuto un talento, soprattutto per i mezzi fisici. Ma Ornel-Nello ha dovuto attendere di avere 25 anni per un contratto con Treviso in Pro12 e quasi 26 per l’esordio in Nazionale maggiore. In mezzo una lunga gavetta sui bistrattati campi dell’Eccellenza, prima in maglia Petrarca (tre stagioni e l’epico scudetto di Rovigo) e quindi a Mogliano fino al 2015.
Una crescita nell’ombra, mentre in azzurro il ruolo di vice-Ghiraldini rimaneva intanto un rebus irrisolto. Nel prossimo tour dell’Italia Gega sarà invece la prima scelta di Conor O’Shea fra i tallonatori, quasi a far da chioccia ai deb Luca Bigi e Luhandre Luus.
«Giocare cinque campionati di Eccellenza mi ha fatto un gran bene. A Treviso dovevo arrivare già nel 2014, il club mi voleva ma mi ritrovavo con un altro anno di contratto a Mogliano. All’inizio confesso che ci ho sofferto. In realtà è stata una stagione di esperienza in più, ed è importante in un ruolo come il mio, che comporta una grande responsabilità e un lavoro su diversi aspetti del gioco».
«Mi rendo conto che essere arrivato con un po’ di ritardo al livello internazionale mi permette di comprendere meglio quanto mi viene chiesto. Perché poi a fare la differenza non sono la teoria e gli allenamenti, ma tutte le situazioni che vivi in campo. Con il Benetton sono stati due anni così così a causa degli infortuni e ho giocato poco (rispettivamente 13 e 11 presenze, ndr). Cosa che mi fa un po’ girare le scatole perché io in Ghirada ci sono cresciuto e a questa maglia vorrei dare di più».
Così paradossalmente il pubblico conosce forse più il Gega in maglia azzurra che quello in maglia biancoverde. «Sono grato a Brunel per avermi fatto esordire in Nazionale, nella prima partita dello scorso Sei Nazioni quando tra l’altro abbiamo sfiorato una vittoria clamorosa a Parigi. O’Shea mi ha rinnovato la fiducia volendomi subito in un tour che mi ha dato particolari soddisfazioni personali (due mete agli Stati Uniti, una al Canada, ndr)».
«Nel ruolo di tallonatore Leonardo Ghiraldini rimane di sicuro il numero uno e un esempio per tutti. Completi come lui ce ne sono pochi, io ho ancora molti aspetti sui quali lavorare, ad esempio il lancio in touche. Nel prossimo tour ci saranno due ragazzi nuovi come Bigi e Luus, la situazione di essere il più esperto di tutti magari è nuova ma mi piace avere questa responsabilità».
Gega era in campo anche quando gli azzurri batterono gli Springboks, data storica 19 novembre 2016 incastonata tuttavia fra una serie di sconfitte poco onorevoli. Nello, e se le dicessimo che a Firenze è stato solo un colpo di fortuna?
«Risponderei che non è vero. E’ una partita che se la rigiocassimo dieci volte la vinceremmo lo stesso, ne sono sicuro. L’avevamo preparata nel modo migliore, grazie anche ai consigli di Venter che gli Springboks li conosce bene. C’era la giusta convinzione, cresciuta minuto dopo minuto: ricordo ad un certo punto i loro sguardi, increduli e come smarriti, e allora ho pensato che davvero potevamo portarla a casa».
Di speciale nella maglia azzurra numero 2 c’è anche che a vestirla è un ragazzo nato in Albania e cresciuto nel cuore del Veneto leghista, un new italian come David Odiete e Marius Mitrea, figlio di una multiculturalità che il rugby francese e inglese conoscevano già da tempo ma che in casa nostra è in fondo ancora una novità.
«Per me non è una questione. Mi sento metà albanese e metà italiano. Vestire la maglia azzurra e cantare l’inno sono davvero una grande emozione. E’ semplicemente questo. Razzismo? Mai sentito qualcuno dire “albanesi di m…a”. Al massimo la battutina, per ridere, come quando diciamo “terrone” a qualche compagno del sud».
La metà albanese è rappresentata soprattutto dal mondo della famiglia, degli affetti. «Ho vissuto a Lheze fino a nove anni, quando ci siamo trasferiti a Istrana per seguire il papà che era già in Italia e faceva il muratore. Con i miei a casa parliamo albanese. Ho dei bei ricordi, e ho amici, parenti e due nonne che vivono ancora lì. Quest’estate le tornerò a trovare, sarà la prima volta anche per la mia compagna Lisa e per i nostri due bimbi».
«Le mie radici sono lì, ma amo l’Italia e anzi qualche volta quando sento che la gente si lamenta del proprio paese davvero non capisco… Qui si vive bene. E la mia metà italiana significa rugby: da questo ambiente arrivano tutti i miei amici, è a bordo campo che ho conosciuto Lisa. Da ragazzo sognavo la Nazionale, e il mio idolo era Castro».
Tutto era cominciato a quindici anni, per colpa – o per merito – di un allenatore ostinato. «Ero alle superiori e il mio prof, Giorgio Troncon (soprannome “Acciaio”, ndr), diceva che avrei dovuto giocare a rugby. Ma a me piaceva il calcio, non ne volevo sapere. Un giorno con una scusa mi diede appuntamento a Paese “per vedere un allenamento” e così mi buttò letteralmente in campo. All’inizio presi tante botte, gli altri giocavano già da un po’ ed erano ben più smaliziati. Poi trovai un allenatore, Paolo Marchetto, che mi fece davvero innamorare del rugby. E continuo sempre ad esserlo».
«Praticamente ho sempre giocato in prima linea e mi rendo conto che è qualcosa di speciale. E’ come fosse un altro sport dentro al rugby. C’è il confronto diretto con l’avversario, c’è l’intesa che devi trovare con i piloni, con le seconde linee che spingono dietro, un’intesa che sta ancora prima rispetto ai legami con tutta la squadra».
«Devi “sentirti”. Vincere la sfida con la prima linea avversaria è tutto. Fra segnare una meta in campo aperto e l’imporre un carrettino e magari ottenere una meta tecnica, non ho dubbi, scelgo tutta la vita la soddisfazione di una meta tecnica o di una mischia dominata».
Se un giorno avesse la chance di un’esperienza all’estero? E se un grande club offrendole un contratto dovesse chiederle – come accade spesso – di rinunciare alla Nazionale? «Anzitutto ho un altro anno di contratto con Treviso. Poi chissà… Giocare in un campionato come quello francese e inglese è naturalmente una prospettiva a cui ognuno pensa. Rinunciare alla Nazionale per un grande club? No, quello no».
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