La prima partita il Coco la vide un qualche giorno agli inizi degli anni Quaranta, quando a Rovigo il rugby era comunque già qualcosa di importante. Invece l’ultima volta (in ordine di tempo) che il Coco ha visto il rugby è stato… due settimane fa, quando cioè i Bersaglieri hanno giocato in casa contro Piacenza.
Perchè il Coco, classe 1927, di partite al Battaglini non se ne perde una. E non se ne perde neanche del Badia, dove gioca Enrico, pilone. Fanno coppia fissa, e più che nonno e nipote sembrano due amici che insieme si divertono un sacco. Inutile dire che è stato il Coco a portare Enrico al rugby quando aveva dieci anni, e lo stesso per l’altro nipote Mattia, oggi apertura del Pesaro.
«Non ho mai giocato ma ero amico di Spagna, di Favaretto, e così dal 1944 ho cominciato a seguire la squadra, a dare una mano. Non avevamo nulla in quegli anni dopo la guerra, solo tanta voglia di fare. Alle trasferte si andava col camion, i giocatori dietro sul cassone, e io guidavo». Da allora più di settant’anni a fianco dei Bersaglieri, un impegno ininterrotto di dirigente e di tifoso, una passione smisurata per i colori rossoblù. «Perchè Rovigo, in Italia e nel mondo, è conosciuta per la sua squadra di rugby».
E nella città della palla ovale il Coco è un istituzione. Conosciuto da tutti anche perchè, al di là del rugby, ha recapitato lettere ai rodigini per quarant’anni. Quando i rossoblù lo scorso maggio sono tornati campioni d’Italia, negli spogliatoi del Battaglini il trofeo è stato consegnato simbolicamente al Coco, che gli scudetti li aveva vissuti tutti i precedenti undici fin dal 1951. «Il rugby è stato la mia vita. Quanto divertimento, quanti amici. Vorrei avere avuto una macchina fotografica di quelle di oggi, e avere potuto fotografare ogni momento. E così ricordare adesso ogni momento».
E’ la dimensione dello stare insieme, prima ancora delle vittorie e degli scudetti, che dà qui significato al rugby. «La partita più bella? Ne ho viste così tante… Ma i ricordi più belli sono quelle domeniche sere quando si andava a ballare al Tropical di Lusia, tutti insieme tifosi e squadra. Poi a mezzanotte la pastasciutta, e poi di nuovo in pista a ballare».
Il Coco fonda nel 1972 il primo sodalizio organizzato di tifosi in Italia, il Club Bersaglieri San Sisto. Il gruppo segue Rovigo nelle trasferte lungo tutta la penisola, rigorosamente in pullman. Trasferte talora sfiancanti, come le 14 ore di viaggio necessarie per andare e tornare in giornata da Roma, ma sempre all’insegna della pitòna, del mangia-e-bevi in compagnia.
Il Club San Sisto inventa anche la macchina rossoblù, una Fiat 124 dipinta coi colori del cuore che il sabato e la domenica macchina gira per la città con un altoparlante, annunciando la partita e suonando l’immancabile marcia dei Bersaglieri. Al volante c’è il Coco. «Ci finanziavamo soprattutto attraverso il Veglione del… 31 gennaio, una grande festa con l’orchestra e la lotteria che era diventato un appuntamento fisso. E in pullman non mancavano mai i salami, le bondiole, le damigiane di vino».
Il tifo del rugby aveva allora altri codici, senza le mediazioni di oggi. «Mi ricordo il Tre Martiri, il vecchio campo che era solo fango. I giocatori ospiti per entrare dovevano correre proprio sotto la tribuna e allora venivano riempiti di parole, di sputi… Poi siamo passati al Battaglini. Seguivamo l’azione lungo tutto il campo, e quindi anche l’arbitro. Gliene dicevamo di tutti i colori, soprattutto quando c’era il derby con il Petrarca…»
«Ma i tifosi con cui davvero non andavamo d’accordo erano quelli dell’Aquila. Al Fattori praticamente eravamo costretti a stare in silenzio… Successe anche che una volta ci bruciarono lo striscione del Club San Sisto, sotto gli occhi di un paio di carabinieri che però si voltarono dall’altra parte. Il capitano Banana Visentin fece una colletta fra i giocatori e così lo striscione fu rifatto, e anzi più grande di prima».
Quello striscione che ancora si può vedere sulle tribune del Battaglini. A Coco piace sempre andare allo stadio una, due ore prima, respirare l’aria mentre la tensione per la partita comincia a salire, salutare gli amici. Di più antico della sua passione rossoblù c’è solamente il suo soprannome.
«Mi conoscono tutti come Coco, anche quando lavoravo alle Poste c’era qualcuno che se sentiva dire Lino Borgato non sapeva che ero io. Mi chiamarono Coco a casa, perchè ero il più piccolo dopo quattro fratelli e c’era già una sorella che veniva chiamata Coca. A dire il vero dopo di me ne nacquero altri quattro, eravamo nove fratelli in tutto, ma ormai il soprannome mi era rimasto».
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