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Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
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Dondi: “Io all’opposizione? Sono stato frainteso”

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Una nota della Federugby precisa le posizioni del presidente onorario Giancarlo Dondi, all’indomani dell’incontro di Piazzola sul Brenta in cui sembrava prendere forma un’alleanza con un progetto elettorale alternativo alla conferma di Alfredo Gavazzi. Queste le parole di Dondi:

Avevo lasciato il Veneto, ieri pomeriggio, soddisfatto dei tanti positivi spunti emersi nel corso del dibattito ed ho dovuto trovare oggi gli stessi argomenti e le mie affermazioni, sulla stampa e sul web, totalmente fraintesi o comunque  – non volendo in alcun modo mettere in dubbio la buona fede dei redattori, che conosco da anni – del tutto decontestualizzati. 

Tengo a precisare che, nel corso del mio intervento di ieri, non ho mai – e tengo a ribadire mai! – voluto muovere critiche al Presidente federale o all’attuale politica della FIR; tantomeno mi sono permesso di offrire il mio sostegno ad eventuali candidati che vorranno concorrere alla prossima Assemblea Ordinaria Elettiva del 2016. “Partiamo anche pochi, ma partiamo” è una frase che non mi appartiene in alcun modo.

Il mio ruolo di Presidente Onorario della FIR mi permette e mi impone di non entrare nel merito della contesa elettorale che non era, peraltro, il tema del piacevole e costruttivo dibattito di ieri: ho sempre rispettato l’istituzionalità dei ruoli che ho ricoperto in oltre cinquant’anni di carriera dirigenziale, in azienda e nello sport, e non ho certo intenzione di venire meno a questo mio modo di comportarmi all’alba degli ottant’anni.

Peraltro, so da chi ha organizzato e moderato l’appuntamento di ieri che la registrazione della giornata sarà presto disponibile, e potrà fare piena luce sulle mie dichiarazioni e sul contesto, assolutamente generico, all’interno del quale sono state pronunciate.

Una precisazione conclusiva: la frase “Si sa che chi lavora sbaglia, ma se sbagli troppo è meglio se stai fermo” è stata effettivamente da me pronunciata, ma in riferimento a quella che è stata la filosofia che ho sempre cercato di seguire nei miei sedici anni alla guida della Federugby ed in alcun modo in contrapposizione all’attuale gestione.

 Ho sempre cercato di operare nell’interesse dello sport che amo sin da ragazzo e non sta a me dire se sono stato un buon Presidente. Di certo ho lavorato ogni giorno con l’intento di far crescere il rugby italiano in un clima di serenità ed armonia. Non ho alcuna intenzione di modificare oggi questo mio approccio.

 

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Quando Billy Bush portò a Villorba l’orgoglio maori

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Quando si incontra Billy Bush ciò che più colpisce sono le sue enormi mani e soprattutto gli smisurati piedi, un tratto di sproporzione comune nella fisionomia di molti maori e polinesiani. A parte la barba più rada e sbiancata, è forte la somiglianza con le immagini degli anni italiani: Billy è un omone squadrato, legnoso, con ampie spalle e poco collo, una pancia prominente ma solida.

Ci accoglie con un cordiale sorriso nella sua casa di Redwood, un ordinato sobborgo a nord di Christchurch, dove il terremoto ha fatto paura ma lasciato le costruzioni perlopiù intatte. Nel tinello le preziose memorabilia di una carriera lunga e prestigiosa.

Billy stacca dalla parete la foto in bianco e nero di una squadra con la scritta Metalcrom stampata in marcati caratteri sulla maglia, proprio la foto che decine di volte ci hanno mostrato tutti quelli che a Treviso e dintorni ancora oggi si vantano di avere giocato «assieme al grande Billi-Bush» (o contro di lui).

Quasi con lo stesso orgoglio l’uomo che è stato ritenuto fra i più forti piloni della storia degli All Blacks nomina i compagni del Villorba stagione 1980-81, naturalmente con personalissima pronuncia.

«Questi sono i Zizola, tre fratelli, questo è Ieie, questo è Annibal, il più forte di tutti, che poi venne a trovarmi e giocò anche qui a Christchurch, questo suo fratello con cui non andava per niente d’accordo», comincia a ricordare Billy, «Giorgio Troncon, l’allenatore, poi questo è Nerio, matto come un cavallo (il padre di Alessandro Troncon, ndr). Sandor, il dirigente. Caio. La prima sera arrivai all’allenamento in maglietta e braghette, tutti gli altri avevano maglie pesanti, cappello e guanti. Capii subito quanto voi italiani siete freddolosi. E al rientro in spogliatoio trovai un anguilla viva dentro il borsone. Uno scherzo di Ieie, che aveva un allevamento di pesce».

Sull’altra parete un paio di quadri a olio con le calli e le chiese di Venezia, molte foto del Sud Africa e la testa di antilope legata al famoso episodio del 1981, al tempo del contestatissimo tour degli Springboks. «Li affrontavamo a Napier con i New Zealand Maori ed eravamo sopra 12-9 dopo una nostra magnifica partita. All’ultimo minuto la loro apertura Colin Beck calcia un drop che va alto sopra i pali ma abbondantemente fuori. L’arbitro però convalida e gli Springboks fanno 12-12, evitando la sconfitta. Saremmo stati, all’infuori degli All Blacks, l’unica squadra a batterli nel tour. I New Zealand Maori, una squadra interamente fatta di “coloured”, secondo i canoni dei sudafricani».

«Nel 2006 sono stato invitato a Pretoria in occasione dell’anniversario del tour e questa testa di springbok è stato il regalo da parte degli avversari di allora, come una specie di riparazione: il trofeo che ci era stato negato nel clima rovente del 1981. Che quel drop era fuori l’ha ammesso anche Beck in un libro».

L’intera vicenda sportiva e umana di Billy Bush, all’anagrafe William Kingita Te Pohe Bush, è legata alle sue origini maori. Nato nel 1949 a Napier, Hawke’s Bay, una delle capitali della cultura dei nativi, rugbisticamente Bush è invece cresciuto nel Canterbury, la regione più pakeha del paese.

«Arrivai qui a 15 anni. A casa parlavamo maori, ma allora la lingua era bandita a scuola e nei mezzi di comunicazione. Ero un ragazzo grande e grosso e le squadre di rugby mi volevamo con sè. Mi piaceva giocare ma non andare agli allenamenti, avevo mille cose per la testa. Così fino ai 18 anni non combinai nulla di serio, fino a quando decisi di impegnarmi di più».

«Il mio obiettivo era di giocare nel Canterbury Maori, il mio sogno di arrivare un giorno nei New Zealand Maori. In realtà successe che venni convocato prima con gli All Blacks, e solo dopo avere disputato già un paio di partite internazionali potei vestire la maglia che sognavo. Gli All Blacks erano naturalmente una soddisfazione ancora più grande, ma era un traguardo che non avevo mai considerato perchè non mi ritenevo bravo abbastanza. E poi per un ragazzo maori, la squadra erano i New Zealand Maori».

Dall’esordio nel ‘74, Bush giocherà con la maglia nera 37 partite, di cui 12 test. Non darsi mai per vinto: l’ha sempre pensata così, dentro e fuori dal campo. Nei suoi anni da giocatore Bush è sempre un personaggio scomodo, che assume posizioni fuori dal coro per difendere il suo orgoglio maori, talvolta forse anche solo per puro spirito di contraddizione.

«Ricordo il tour in Sud Africa nel 1976. Era evidente che noi maori non eravamo graditi, meglio se accettavamo di entrare nel paese da “honorary whites” come avevano fatto altri prima di noi. Noi rifiutammo, eravamo cinque maori in squadra, fra i quali un giocatore straordinario come Sid Going (gli altri erano Bill Osborne, Kent Lambert e Tane Norton, e con questi ultimi Bush formava una memorabile prima linea, ndr). Non era una sfida o un gesto politico: io volevo semplicemente essere me stesso ed essere chiamato Billy Bush, senza nessuna etichetta di bianco o maori».

«Ogni partita era durissima, soprattutto durante la settimana, contro squadre di club composte da uomini enormi: colpi proibiti, risse, bisognava darle per non prenderle. Ed era chiaro che io ero uno dei bersagli preferiti degli avversari. Gli organizzatori del tour dissero che non era opportuno fare la haka prima dei test contro gli Springboks, che i sudafricani non avrebbero gradito. In spogliatoio dissi a J.J. Stewart, l’allenatore: o facciamo la haka o noi maori torniamo a casa. Era il nostro modo di dire che non accettavamo le cose come stavano in Sud Africa».

Complice un infortunio al pilone Brad Johnstone, futuro ct azzurro, Bush fu la prima scelta nel tour per fronteggiare il potente pack degli Springboks. Gli All Blacks atterrarono in Sud Africa il 30 giugno. La rivolta di Soweto era scoppiata il 16. I neozelandesi (che peraltro da sempre riscuotevano le simpatie dei neri sudafricani) viaggiarono sotto scorta, ignari dell’escalation delle violenze vista anche la morsa della propaganda del regime sui mezzi di comunicazione.

Il rugby era una buon occasione per distogliere il pubblico, o meglio gli afrikaner, dalla tensione sempre più drammatica generata dall’insostenibile sistema dell’apartheid. Il tour del 1976 terminò 3-1 per gli Springboks, che però vinsero il quarto test 15-14 con un arbitraggio molto dubbio ed un calcio di punizione contro Bush per il decisivo sorpasso dei sudafricani. Secondo il racconto di Bryan Williams, alla fine l’arbitro Gert Bezuidenhout addirittura si scusò con i neozelandesi: «Ragazzi, voi domani tornate al caldo di casa vostra, ma io qui ci devo vivere». Su un altro piano, fu quel tour a scatenare il boicottaggio di 33 paesi africani alle Olimpiadi di Montreal, da lì a due mesi. E per ben 16 anni la Nuova Zelanda non farà più visita al Sud Africa.

La carriera di Billy con gli All Blacks si prolungò fino al ’79, con un’appendice di altri tre anni con i New Zealand Maori. «Capiamoci, erano tempi duri. Andava in tour chi poteva permetterselo. Quando la colletta organizzata dal tuo club andava bene. Ma io ad esempio nel ’77 non potei andare in tour in Francia, che significava stare lontani dal lavoro per cinque settimane e ricevere dalla Union un dollaro e 25 al giorno».

Nel 1980 sarà la volta dell’esperienza italiana. Tre stagioni nel Villorba. Bush non è il primo degli All Blacks a giocare nella nostra serie A, c’era stato Ken Carrington nel Casale cinque anni prima. Ma di certo la presenza del pilone si fa notare, non solo per la stazza e per la tecnica ma anche per il look da spaccalegna. Nel campionato italiano i piloni toccavano l’ovale solo in allenamento. Bush correva, portava palla, passava. Segnò pure 4 mete.

In Veneto, fra la gente di rugby, il mito di Billy Bush è anzi ancora vivo. «Era il 1979. Avevamo giocato a Montebelluna una partita organizzata da Vittorio Munari fra Dogi e Cantabrians e per la nebbia ero bloccato da ore all’aeroporto di Venezia. Mi avvicinarono un paio di signori, chiedendomi in un vago inglese il mio numero di telefono. Qualche settimana dopo arrivò l’offerta del Villorba. In pratica potevo giocare la stagione con il Canterbury e poi, durante l’estate neozelandese, quella italiana».

«Imparai la lingua, che ora ho dimenticato. Imparai a sciare, fra i monti bellissimi di Dobbiaco e Cortina. In Italia il livello del gioco era inferiore ma si giocava un rugby pieno di passione, e in questo non era diverso dalla Nuova Zelanda. Prendevo uno stipendio normale, lo stesso che avrei ricevuto lavorando a Christchurch, anzi per un po’ ho anche lavorato con la ditta di Giorgio Bortoletto che stava restaurando le mura storiche di Treviso. Ma i soldi non c’entravano. Era un gran bel modo per vedere il mondo, tra l’altro avevo un visto turistico e ogni tre mesi dovevo espatriare per rinnovarlo».

«Con gli italiani legai subito. Come a noi maori, anche a voi piace cantare. Le due lingue hanno qualche somiglianza, perlomeno nella pronuncia. In pullman tiravo fuori la chitarra e si cantava. I miei compagni, anche se non ne sapevano il significato, avevano pure imparato delle canzoni in lingua maori. Sarò sempre molto fiero di loro. Villorba sarà sempre il mio club».

Chiusa la carriera da giocatore nel 1982 con un deludente tour in Galles dei New Zealand Maori, Bush si è dedicato anima e corpo a quella rappresentativa, di cui è stato selezionatore per oltre un decennio. E non ha mai smesso con le provocazioni. «Nel 2006 dissi che, come nel rugby sudafricano, anche gli All Blacks dovrebbero riservare una quota del 50 per cento ai maori. Ne venne fuori un bel casino. Eppure credo che in campo ne avremmo solo da guadagnarci».

Ma cosa significa essere maori oggi, di fronte ad un così massiccio sforzo di integrazione? «I maori sono sempre nei gradini più bassi della società, ma la Nuova Zelanda è oggi un paese giusto. Potrebbe forse essere meglio, però se guardiamo a come vengono ancora trattati gli aborigeni in Australia allora dobbiamo apprezzare tutto l’impegno dei nostri governi per i maori. C’è rispetto per la lingua e le tradizioni, che ora si insegnano a scuola. Abbiamo maori ormai anche nelle professioni più qualificate. Restano questioni aperte riguardanti il passato, come quelle relative alla revisione del trattato di Waitangi, ma il futuro dei maori in Nuova Zelanda si prospetta sempre migliore».

Presidente per alcuni anni della Canterbury Rugby Union, oggi Bush ha allentato i suoi legami con il rugby.

Ma dedica un po’ di tempo, ogni giorno, al club di origine, il Belfast, una realtà piccola ma impregnata di storia e impegno. Puro grassroots football, rugby di base, di comunità. Abbandonato il league, Sonny Bill Williams scelse il Belfast per giocare la sua prima partita a quindici.

«Il modello professionistico sta uccidendo i club. Vorrebbero un rugby fatto solo di All Blacks, Super 15 e Npc, ma così non funziona e mi sembra che se ne siano accorti anche nelle alte sfere. Senza considerare che un club come Belfast è un punto di riferimento, non solo nello sport. Abbiamo una sala per banchetti da 400 posti, qui ci si sposa, si festeggiano compleanni e battesimi. Non è poco in un’area working class come questa. Se moriranno i piccoli club, gli All Blacks un giorno non avranno più giocatori, e neanche tifosi. Già i praticanti sono oggi appena 120mila, mentre ai miei tempi erano almeno il triplo, e il calcio non sapevamo cosa fosse».

 

Brano tratto da “Meta Nuova Zelanda”, Ediciclo Editore.

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I nuovi Dogi sono realtà. Lunedì le firme sullo statuto

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Di Dogi si è parlato moltissimo negli ultimi anni (e spesso a sproposito). Il percorso per la rinascita della rappresentativa veneta è stato irto di ostacoli ma i promotori dell’idea, su tutti il presidente del CRV Marzio Innocenti, hanno inseguito l’obiettivo con testardaggine.

E’ ora il momento di tirare le fila: i nuovi Dogi da lunedì saranno realtà, almeno da un punto di vista meramente amministrativo. L’appuntamento è a Treviso, nella casetta di Monigo, dove i soci della compagine sono chiamati a controfirmare lo statuto e pertanto a dare vita ufficialmente al sodalizio.

Il rugby veneto, peraltro diviso da orgogliose rivalità, si dimostra capace in questo caso di una interessante iniziativa condivisa. Attorno all’idea dei Dogi – che evidentemente è anche una sorta di patto in termini di politica sportiva – si sono coagulate le forze regionali quasi all’unanimità. Oltre ad alcune piccole società, il grande assente è il San Donà del presidente Alberto Marusso, che ha deciso di non aderire.

Secondo lo statuto, nel consiglio dei Dogi sederanno otto realtà, più il Comitato Regionale Veneto con funzione esterna: Treviso, le tre di Eccellenza (Rovigo, Petrarca, Mogliano), i rappresentanti dei club di serie A e di serie B, quello del rugby di base (C, femminile, propaganda), i proprietari del marchio.

Nella foto, dalla rivista Il mondo del rugby: la formazione dei Dogi nell’ultimo dei grandi match disputati, a Rovigo contro gli All Kiwis imbottiti di All Blacks (da Shelford a Kirwan), nel 1990.

 

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Lando Cosi, un cuore petrarchino

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Dopo una lunga malattia, venerdì scorso Lando Cosi ha passato la palla. Classe 1924, era stato protagonista delle vicende del Petrarca Padova fin dalla sua fondazione, avendo cominciato a giocare a rugby giovanissimo con la Gil, negli anni Quaranta.

Nato il Petrarca sulle ceneri dell’A.R. Padova, Cosi fu voluto dal “Capo” Valvassori prima quale capitano della squadra e infine nel 1954 come giocatore, capitano e al contempo allenatore dei tuttineri. Chiuse la sua carriera nel 1963, a 39 anni, rimanendo però sempre vicino all’ambiente padovano.

Nel 2005 Cosi pubblicò “Piccolo, grande rugby antico!!”, un libro di memorie dedicato alla palla ovale dei pionieri, denso di aneddoti capaci di rendere l’atmosfera gioiosa del dopoguerra. «Non fossi stato giocatore di rugby, non avrei vissuto pienamente i miei venti, i miei trenta, i miei quarant’anni», scrisse il petrarchino.

 

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La strana coppia e il Petrarca che non perde mai

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Alla guida tecnica dei cadetti del Petrarca c’è una strana coppia fatta da Pietro Monfeli, 66 anni, e Andrea Marcato, 32. Da giocatori ruvido tallonatore il baffuto nativo di Viterbo, buono per le battaglie nel fango; l’altro (comunque ancora in attività) apertura con uno dei piedi migliori visti in Italia nell’ultimo decennio.

Simpaticamente burbero Monfeli, di approccio più professorale Marcato. L’uno con esperienze in un bel po’ di squadre delle entroterra veneto, dal Cus al Mirano, l’altro alla sua primissima avventura in panchina. «Andrea è il giovane, porta le idee moderne di oggi», dice scherzosamente Monfeli, «io sono il vecchio, il mio rugby è quello di una volta, tutto cuore».

Il dato di fatto è che il PetrarcaBis non perde una partita da due anni. Solo successi (e tutti con bonus) nella scorsa stagione di serie C, vinta recuperando anche 9 punti di penalità sanzionati per l’indebito utilizzo di un atleta tesserato con la prima squadra.

Solo successi in questa stagione, nella quale però il Bassano è stato degno avversario nella corsa al vertice. La promozione in B, negata l’anno scorso per una regola ora già abrogata, è diventata realtà alla fine di uno scontro diretto dall’esito eloquente: 34-7 per i tuttineri. Punti di bonus persi per strada? Solo un paio, all’andata a Bassano e in casa contro il Botticino.

«La funzione della squadra è quella che fu un tempo della Tre Pini, cioè far crescere in casa i nostri ragazzi una volta passati seniores e prepararli per l’eventuale salto in Eccellenza», spiega Roberto Biasio, accompagnatore e fisioterapista, «gli atleti che escono dalle giovanili del Petrarca continuano ad avere ottime qualità individuali, l’hanno dimostrato in queste due stagioni senza sconfitte e prima ancora con lo scudetto under 23. Con l’approdo in serie B forse rientrerà qualche ragazzo che aveva scelto altri club, il divario rispetto all’Eccellenza si riduce e così potremo essere ancora più utili in funzione della prima squadra».

Mentre Andrea Marcato ha sostituito in corsa Marco Lorigiola, fermato da problemi di lavoro, nel corso della stagione tre cadetti hanno avuto l’occasione di assaporare l’atmosfera della prima squadra (Gutierrez, Del Ry, Capuzzo). Andrea Moretti e Rocco Salvan danno più di un’occhiata ad allenamenti e prove dei cadetti.

Contro l’Ospitaletto domenica si chiude il torneo di C, con la chance molto concreta per il Petrarca di chiudere un’altra stagione senza sconfitte. E in cima anche alla classifica… dell’antipatia, come ogni squadra vincente. «Siamo il Petrarca, con tutta la sua storia», dice Biasio, «ogni avversario ci mette sempre il doppio dell’impegno per batterci: non possiamo che esserne orgogliosi».

(foto Riccardo Callegari / Petrarca Rugby)

 

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Citius, altius, fortius. Ma per i rambo del rugby qual è il prezzo da pagare?

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Citius, altius, fortius. Quello di oggi è un rugby di atleti sempre più veloci, più alti, più forti, e anche più pesanti e aggressivi. “Rugby rambo” l’ha chiamato, con una felice definizione, Toni Liviero, fermo restando che il gioco aveva nei suoi cromosomi uno sviluppo di questo tipo: il fisico e i chili sono sempre stati importanti.

L’approdo al professionismo ha accelerato un’evoluzione della specie che i cugini del league hanno metabolizzato da tempo, ma al contempo il mondo del rugby non può più evitare di farsi – seriamente e responsabilmente – delle domande.

Cioè quelle domande che ha osato mettere sul tavolo un ex Nazionale francese, Laurent Bénézech, in un libro-denuncia pubblicato lo scorso novembre. Oltralpe altri hanno seguito la strada aperta da Bénézech nei mesi seguenti, anche con intento sensazionalista, ma di fatto in “Rugby, où sont tes valeurs?” (Éditions de La Martinière) la questione è già posta in modo efficace e compiuto.

Soprattutto, la domanda viene da un ex atleta ed è rivolta agli atleti di oggi, riguardando la loro salute anche in una prospettiva di lungo termine. Il rischio di infortuni gravi in attività, su tutti la famigerata concussion, la commozione cerebrale, non è che uno dei sottoprodotti del rugby rambo, seppure il più allarmante.

Bénézech in sostanza si chiede: qual è il prezzo da pagare per ottenere prestazioni fisiche come quelle necessarie nella palla ovale attuale? Quali pericoli corrono i giocatori per la loro salute futura, a fronte di gloria e denari regalati da una spesso effimera carriera professionistica?

Come sia tutto cambiato, in termini di performance, Bénézech lo spiega bene con qualche semplice statistica. In otto stagioni, dal 2005 al 2014, nel campionato francese il peso medio di una seconda-terza linea è passato da 105 a 115,25 chili; tutto questo mentre il tempo di gioco è cresciuto a tal punto che ai prossimi Mondiali si prospettano match con 50 minuti effettivi (erano appena 20 nel 1995).

Alla metamorfosi fisica si è giunti certo con l’impegno full time del professionismo e con il perfezionamento dei metodi di allenamento.

Ma una certa macroscopica evoluzione – con segnali quale l’aumento di peso di una decina di chili nel giro di una sola stagione – non si può spiegare che con l’uso di farmaci complementari all’attività in palestra e sul campo.

“Soprattutto, non cadiamo nella trappola tesa dagli stessi sportivi, che pretendono opporre allenamento e assunzione di prodotti, quando non è che la combinazione delle due cose a garantire l’esplosione della performance”, scrive Bénézech.

Esempio di sostanze che potrebbero favorire la performance e di cui si potrebbe sospettare l’utilizzo nel rugby? Gli anabolizzanti servono a fabbricare massa muscolare; l’ormone della crescita aumenta, oltre alle masse muscolari, la resistenza alla fatica; i corticoidi (o corticosteroidi) ed altri stimolanti per la resistenza alla fatica e al dolore permettono di far crescere i carichi di lavoro; la manipolazione sanguinea e l’Epo facilitano le capacità aerobiche; i diuretici permettono di perdere peso e hanno effetto mascherante rispetto ad altre sostanze. Senza dimenticare tutti i tipi di narcotici, sia a base di morfina per la resistenza al dolore che di cocaina per ottenere un effetto stimolante.

Il punto di partenza di Bénézech è la sua stessa esperienza, ritenendo di avere assunto a sua insaputa del cortisone durante la preparazione alla World Cup del 1995.

Il francese ha il merito di non voler parlare di doping, termine che nella sua complessità risulterebbe fuorviante rispetto all’autentico obiettivo della denuncia, che rimane la salute degli atleti.

La definizione coniata da Bénézech è quella di “accompagnement médicalisé de la performance“. I suoi possibili esiti vanno dall’elevato rischio di cancro e di problemi cardiaci, anche in giovane età, fino ad un precoce invecchiamento (nella NFL americana una carriera dura di media 3,9 stagioni e l’aspettativa di vita degli ex giocatori è di soli 55-60 anni…).

“Quando parlo di accompagnamento medicalizzato della performance, comprendo uno spettro che è molto largo, che parte dagli integratori alimentari, dalle proteine e da altri prodotti noti, e che giunge fino all’armamento pesante come l’EPO. L’approccio psicologico è lo stesso, è la pericolosità che fa la differenza”.

I controlli sono insufficienti. Resta comunque un dato di fatto che, secondo i test effettuati dalla World Anti Doping Agency, nel 2013 il rugby è risultato lo sport di squadra con il più alto tasso di positività (1,3%), precedendo peraltro atletica e ciclismo (link al report ufficiale WADA).

“Perché ho preso la parola? Semplicemente perché è evidente che esiste un problema e che pertanto è necessario parlarne. Un problema generale di salute che tocca principalmente il mondo professionistico ma che rischia di diffondersi banalizzando il culto dell’uomo forte a tutti i costi. La capacità di generare profitti sempre più importanti esonera questo sport da qualsiasi questione morale?”

Touché. La palla ovale francese si sente ferita. Arrivando da un membro della confraternita (Bénézech ha giocato ad altissimo livello negli anni Novanta), la denuncia non può essere ignorata. Il libro è anche la storia – interessante e istruttiva – della reazione del mondo del rugby all’accusa di “trovarsi nella condizione del ciclismo alla vigilia dell’affare Festina”, titolo dell’intervista a Le Monde con cui Bénézech sollevò il dibattito.

Reazione poco trasparente, mentre gli strumenti di contrasto messi in atto (il cosiddetto suivi longitudinal, monitoraggio sulla base di analisi periodiche) si rivelano inadeguati.

Se poi controllore e controllato condividono gli stessi interessi…

“Il messaggio subliminale che il mondo del rugby invia attraverso le sue numerose reazioni è: lasciateci tranquilli, siamo adulti e sappiamo bene ciò che facciamo. No, io credo che non lo sappiano”.

Quello di Anthony Martrette - ex giocatore alle prese con depressione e dipendenza da farmaci – è forse un caso limite, ma in quanto tale non può essere ignorato.

Bénézech ha ricevuto diverse querele per diffamazione, ma il tribunale gli ha dato sempre ragione. Non così per altri protagonisti del rugby francese di oggi, come il preparatore atletico Alain Camborde, condannato nel luglio 2013 per esercizio illegale della professione di farmacista ed importazione e detenzione di sostanze dopanti. A lungo Camborde era stato ritenuto uno dei “maghi” della performance (grazie ad integratori a base di ormoni tiroidei), vicino al Pau ma preparatore personale di diversi atleti di vertice, fra i quali il nostro Andrea Masi.

“Non posso più mettermi di fronte alla televisione per divertirmi guardando una partita di rugby dopo che quello che è stato il mio sport viene ora cannibalizzato da questa costruzione di fisici fuori norma che appare sempre più evidente”, chiude Bénézech.

Quanto ci sia di vero nella sua denuncia non si può sapere con certezza. Di certo, però, la legge del silenzio non serve a nulla e nessuno. Un libro da leggere.

 

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Lo sponsor fissa il premio-promozione: il Paese in visita a Medjugorje

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A Paese il club ha un affezionato sponsor “storico”, il Gruppo Padana. E con Paolo Gazzola, titolare dell’azienda assieme al fratello Giorgio, la squadra ha una lunga tradizione di scommesse goliardiche.

Nel 2008, ad esempio, lo sponsor mise in palio una cena in un ristorante di grido se i giocatori rossoblù avessero vinto tre partite; un viaggio a Valencia se la striscia positiva si fosse allungata a quattro. Ma la squadra perse sul campo e così anche la scommessa. I giocatori furono così costretti a pagare pegno, compiendo un giro del paese (cioè di Paese) vestiti solamente di… perizoma.

Allora la storia – e il video - finì addirittura su giornali e tivù nazionali, mentre la società dovette anche mediare con il parroco che non aveva gradito l’iniziativa.

Quest’anno la scommessa, però, è di diversa ispirazione. E decisamente insolita. In caso di promozione lo sponsor ha infatti sì promesso un viaggio-premio ai ragazzi, ma non nella festosa Spagna quanto al santuario di Medjugorje, in Bosnia Erzegovina, luogo di pellegrinaggio a partire delle note apparizioni mariane del 1981.

Sulle prime era sembrato uno scherzo. In realtà Paolo Gazzola ha spiegato di avere visitato Medjugorje recentemente e di esserne rimasto favorevolmente colpito, tanto da pensare ad un visita di alcuni giorni come un’esperienza importante anche per i ragazzi del rugby.

Quante possibilità hanno i “Canguri” di ottenere il premio-promozione?

Beh, parecchie. Oggi il Paese è primo nel girone veneto della serie B con 14 vittorie, 2 pareggi e una sola sconfitta. Ed è reduce da un pari casalingo preziosissimo nel derby col Casale.

Dopo essersi autoretrocesso dalla A per problemi economici nel 2013 e dopo aver fallito la risalita l’anno scorso nello spareggio con il Piacenza, il club rossoblù tornerà senz’altro a fare i playoff anche se probabilmente da secondo in classifica dietro all’ambizioso Casale, che ha due punti di ritardo ma una gara in più da giocare.

«La promozione non è un obiettivo dichiarato, ci proviamo ma se non dovesse arrivare nessun problema, ritenteremo l’anno prossimo», spiega il presidente Paolo Pavin. Dovesse succedere, i giocatori dovranno preparare le valigie per Medjugorje. E questa volta anche il parroco approverà l’iniziativa.

 

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«Mani come badili / sull’ovale di cuoio»

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Le grotte, il rugby, e su tutto la politica. E’ stato uomo di grandi passioni, “il Cin”. L’esplorazione degli anfratti della terra, del mondo sotterraneo, è stato forse il modo in cui trovò corrispondenza tutta la sua curiosità intellettuale.

Fu il pioniere della speleologia trevigiana negli anni Sessanta, grande animatore del Gruppo Grotte e volontario del soccorso. E fra i primi in Italia nelle esplorazioni speleosubacquee.

Nello sport della palla ovale probabilmente riconobbe soprattutto la dimensione collettiva e solidale, ma anche, implicito nello scontro fisico, il confronto continuo con un’idea della vita come lotta, sfida.

Comincia nel Pin Sport, gioca nella Metalcrom e nel Casale, seconda linea, brillando non per il talento ma per cuore e sacrificio.

Infine trova un vera e propria casa nella Tarvisium accompagnando l’ascesa delle “magliette rosse” fino alla serie A. Chiusa la carriera, diventa il massaggiatore della squadra. Per tutti è anche un amico, un confidente, un esempio.

Inconfondibile la sua figura a bordo campo: per la stazza, la barba folta, il cappellaccio da cowboy, l’immancabile sigaretta.

La politica fu forse il naturale approdo della sua tensione etica, del suo istinto di ribellione per l’ineguaglianza e l’ingiustizia.

Metalmeccanico e in seguito autotrasportatore, in città fu fra le guide carismatiche del “movimento” a Treviso nei caldi anni Settanta, divenendo allo stesso tempo una sorta di leggenda (alimentata dall’aspetto… guevariano) per la generazione più giovane.

E’ il Cin quello in prima linea nelle manifestazioni di piazza di cui racconta Marco Paolini in “Aprile ’74 e 5”. Estremo, intransigente, appassionato fino in fondo. Sul campo, in piazza, in grotta.

Gruppo Grotte, magliette rosse, l’impegno politico sono stati tutti insieme Francesco Dal Cin, scomparso il 5 maggio 2005 a soli 59 anni. Quel weekend le giovanili della Tarvisium giocano con un nastro rosso al braccio.

Il funerale laico viene ospitato sul prato di San Paolo, in un impianto gremito, accompagnato da cori gospel e dalle canzoni della squadra.

Tono De Vivo, amico e compagno di esplorazioni speleologiche che sul Cin realizzerà anche un documentario assieme ad Enzo Procopio, legge quel giorno una poesia dal titolo “Mani come badili”.

Mani come badili nel buio amico,
sulla roccia liscia e nel fango che incolla

nelle acque limpide di sifoni profondi.

Mani come badili a tessere nodi, a inventare percorsi,
a descrivere vie sotterranee, nascoste.

A portare feriti e donare conforto,
placar la paura, ad urlare la forza.

A indicare stupite fiori e gemme di roccia,
a cercare, ostinate, risposte, o mistero.

A stringere lievi ben più piccole mani,
di scriccioli attenti e un po’ timorosi,
a guidar passi incerti, a gettare una luce,
su ciò che si trova al di sotto del cielo.

Mani come badili su un bicchiere di vino,
a cantarne le lodi, a versarne altri cento.

Mani come badili, nelle piazze ed in strada,
a portare bandiere, a gridare diritti.

A distruggere dubbi, ad indagare certezze,
a rider le mode, a sputar sul consenso.

Ad abbattersi chiuse, chiuse a pugno da maglio,

sopra tavoli ignari, per parlare del mondo.

Mani come badili sull’ovale di cuoio,
nella nebbia o nel sole,
sopra campi bagnati o già duri di ghiaccio.

Occhi come finestre,
tra la barba ed il cuore.

Voce come tuono,
rassicurante come un basso continuo.

Se esiste un mondo al di là della soglia, ci piace pensarlo di montagne e di grotte,

di campi di rugby, di fiumi e di mari, di osterie di altri tempi.

Ci piace pensarti un po’ assorto a fumare,
mentre respiri spazio a mille miglia di distanza.

Se ciò che resta è soltanto il ricordo,
hai vinto in partenza.

Amico, fratello, padre, compagno e maestro,
ci hai insegnato di tutto.

A resistere duri ai placcaggi della vita,
a non mollare mai,

“senza perdere la tenerezza”, come disse quel Che che hai molto amato;
ci hai insegnato la partecipazione,
la solidarietà,
la disponibilità,

la condivisione.

Continueremo ad esplorare, a giocare, a bere e a cantare anche per te,
ma è dura, amico grande, è dura.

Saremo in grotta a coprirci di buio,

su di un campo di rugby a coprirci di fango,
di fronte a un bicchiere a riempirci di vino.

Francesco Dal Cin sarà ricordato dai molti amici, in particolare del Gruppo Grotte e della Tarvisium, in una serata in programma venerdì 8 dalle 19,30 nella club-house di San Paolo.

 

(La foto in alto è tratta dal libro di “Ruggers” di Paolo Benetti ed Ermenegildo Anoja, per le altre foto si ringrazia Antonio De Vivo)

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Favaro saluta. «A Glasgow nuovi stimoli, ma il cuore resta a Treviso»

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Ad una festa-aperitivo con i tifosi biancoverdi, ieri sera, si è presentato in bermuda e ciabatte da spiaggia. Simone Favaro è così, e piace alla gente proprio perché è così: il ragazzo semplice della porta accanto, che il successo nel rugby e una certa notorietà non hanno minimamente cambiato. Nella vita come in campo, Simone placca basso e va al sodo.

Sono sempre un esempio la sua grinta e la sua presenza in difesa (ma negli ultimi anni sta diventando anche un efficace portatore di palla). Come terza linea fetcher – o  in francese plaquer-gratteur – lo zerotino è ormai fra i migliori in Europa.

I tifosi biancoverdi l’hanno premiato “in natura” con una magnum di prosecco e una coppa artigianale per l’ignoranza rugbistica, dote che Favaro incarna istintivamente come pochi altri in Italia. Atto dovuto anche perché dopo tre stagioni al Benetton il flanker sta per imbarcarsi in una nuova avventura con la maglia dei Glasgow Warriors, squadra di vertice in Guinness Pro12.

«Questa è la mia città, questa è la mia gente, andare via dispiace e resterò sempre un tifoso di Treviso», ha detto ai tifosi, «ero tornato nel 2012 e le tre stagioni con la maglia del Benetton sono state molto intense, molto belle, anche se di sicuro avremmo voluto regalare qualche vittoria in più al nostro pubblico. Avrei voluto giocare di più, purtroppo si sono messi di mezzo gli infortuni».

Tdr. Cosa si aspetta ora da questo nuovo capitolo a Glasgow? Forse, rispetto a Treviso, la possibilità di vincere un trofeo?

SF. «Come detto, lasciare Treviso dispiace. Però sono giovane (26 anni, ndr) e ho anche voglia di fare nuove esperienze, sia sportive che personali. Di avere stimoli nuovi. Poi se mi chiedono se mi piacerebbe vincere il Pro12 con il Glasgow, o andare ai playoff in Champions Cup, io rispondo: ca…o se mi piacerebbe».

«Ma non è questa la questione. A Glasgow sarò l’ultimo arrivato, vado per imparare e per provare a conquistarmi un posto in squadra. E’ un’avventura tutta da scoprire, in un ambiente tutto nuovo: conosco solo Gavin Vaughan, che è nello staff tecnico e aveva lavorato negli Aironi».

Tdr. Perché ha scelto i Warriors?

SF. «Avevo ricevuto diverse offerte, ma fin dall’inizio Greg Townsend e i suoi assistenti hanno dimostrato di conoscermi bene e di apprezzarmi. Erano i più decisi a volermi con loro, pur sapendo che nella prossima stagione, con Mondiale e Sei Nazioni, la mia disponibilità potrebbe essere limitata».

«Da parte mia, avendo giocato contro i Warriors ne avevo apprezzato l’organizzazione di gioco. Fanno un rugby in un certo senso semplice, ma eseguendo ogni movimento con la massima precisione e velocità. Una bella filosofia, una squadra tosta».

Tdr. Cambierà molto anche nella sua vita quotidiana, a cominciare dalla lingua.

SF. «Sì, cambierà tutto. Ma non vado a Glasgow per il sole, ci vado per il rugby. E ci vado con entusiasmo. L’inglese? Me la cavo, forse ci vorrà un po’ per adeguarmi all’accento scozzese… Di certo ci sarà qualcosa che mi mancherà dell’Italia, ma scoprirò la Scozia: lasciando la città, comincia subito la natura, con paesaggi bellissimi».

«La gente la trovo simpatica, alla mano. Mi piace l’abitudine di starsene al pub, chiacchierare con tutti. Al Benetton auguro le migliori soddisfazioni. Il pubblico mi ha voluto bene, spero di sentire questo affetto anche quando tornerò a Monigo da avversario».

 

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Gli storici playoff del Cus Verona (e un tifoso speciale)

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Mai il Cus Verona era arrivato così in alto, in 52 anni di storia. La corsa si era fermata ad un soffio dai playoff per l’ammissione in Eccellenza nelle stagioni passate. Questa volta i verdeblù hanno invece tagliato il traguardo, conquistato grazie ad un successo pesante e definitivo in casa della capolista Colorno dopo una seconda fase con qualche imprevisto di troppo.

L’entusiasmo oggi si tocca con mano in un ambiente capace di coinvolgere oltre 400 tesserati (e le loro famiglie), dall’under 6 alle tre formazioni seniores.

L’entusiasmo di un tifoso come Gianni Hochkofler. Pioniere del rugby scaligero, tanto da figurare nella copertina del libro che racconta la storia del sodalizio, Hochkofler adesso vive a Ginevra ma non ha voluto perdersi le partite decisive dei suoi virtuali ”nipoti” in maglia Cus. Tornerà domenica per sostenere il Franklin&Marshall a Parona nell’andata contro il Recco e per fare comunque festa con i compagni di un tempo.

I favoriti sono i liguri, dominatori della pool A e forti del vantaggio del campo in gara2, dove per il fondo in sintetico e le dimensioni atipiche del terreno è un’impresa passare per qualsiasi avversario. «Approdare in Eccellenza non è l’obiettivo immediato, lo erano però i playoff ed ora che ci siamo vogliamo provare ad essere la sorpresa», commenta il presidente cussino Davide Adami, insegnante di storia dell’arte e nella vita del club fin dal 1974.

«Allo stesso tempo il traguardo della semifinale è coerente con lo sviluppo del club, che nelle ultime stagioni è cresciuto molto sia a livello della base che del vertice rappresentato dalla prima squadra. Il rugby è ormai parte del tessuto sportivo di Verona, una città in cui resta comunque difficile emergere fra le eccellenze del calcio, della pallavolo e delle altre discipline».

La palla ovale scaligera guarda da una parte al Veneto e dall’altra alla Lombardia, in una posizione che può rivelarsi favorevole per attingere ai due bacini anche se pure “di confine” (definizione di Adami, tra l’altro nella dirigenza dei neonati Dogi come rappresentante delle società di serie A).

Così il Cus ha potuto assortire una coppia tecnica appunto lombardo-veneta con Antonio Zanichelli, ex Viadana, che da quest’anno ha fatto correre i trequarti mentre la mischia era un punto di forza consolidato dal lavoro a lungo termine di Paolo Borsato, indimenticato pilone del Petrarca degli anni d’oro.

Padova rappresenta da sempre una sponda privilegiata. Hanno avuto esperienze nei tuttineri il prima linea Luca D’Agostino e Marco Neethling (foto), visto anche al Benetton Treviso (l’italo-sudafricano è fra i punti di riferimento della squadra assieme al fratello Ryan).

Niccolò Badocchi ha invece lasciato un buon ricordo di sé a Rovigo. L’accento straniero è quello dello scozzese Ross Combe, giunto dopo che l’apertura Herman Share – positivo nella prima parte di stagione – ha deciso di rientrare in Sud Africa colto da saudade.

E adesso? Per i verdeblù del capitano Enea Braghi una doppia semifinale contro il Recco, poi eventualmente la finale per la promozione quasi sicuramente con la corazzata Colorno.

Vada come vada, il Cus ha fatto sapere che nella geografia del rugby veneto c’è anche Verona. Mentre il presidente verdeblù ha una carta in più da giocare nel cammino di crescita della società, che vede come passaggio indispensabile l’adeguamento delle strutture.

«Non abbiamo ancora incontrato il Recco in questa stagione, sappiamo che hanno caratteristiche simili alle nostre con un pacchetto di ottimo livello», dice Adami, «oggi siamo una squadra matura, negli ultimi mesi abbiamo dimostrato di non mollare mai anche di fronte a sconfitte impreviste. Ce la giocheremo, credo sarà una doppia semifinale equilibrata».

«Avere raggiunto i playoff, in ogni caso, ci garantisce una rinnovata visibilità e torneremo a chiedere all’amministrazione comunale il completamento dei nostri due campi in zona nord, che peraltro saremmo in grado di attuare a nostre spese. Spazi assolutamente necessario per l’attività del nostro settore giovanile».

 

(Foto BPE / Cus Verona Rugby)

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Il congedo di Corniel Van Zyl, “colonnello” di Treviso

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Certi soprannomi dicono tutto. Quello che Corniel Van Zyl ha portato con sé fin da Nelspruit (ex Transvaal, oggi Mpumalanga) è “Cernal”: così suona in afrikaans il grado militare di “colonnello”. E infatti quello che ispira la personalità del sudafricano è un certo senso di rispetto e di fiducia, come accade per chi sa porsi naturalmente come un leader.

Contribuiscono certo i 202 centimetri di statura, ma più ancora lo stile dell’uomo, cioè la serietà, la dedizione, e insieme la disciplina, la lucidità nei momenti cruciali. Nel Benetton Van Zyl si è imposto come leader fin dal suo arrivo, otto stagioni fa.

Munari e Smith lo prelevarono dai Cheetahs, con i quali aveva vinto tre Currie Cup; era ad un passo dagli Springboks, dove però il ruolo di seconda linea era monopolizzato da due monumenti come Victor Matfield e Bakkies Botha.

Fortuna per Treviso (e, in parte, per l’Italia). Van Zyl è stato protagonista nell’era Celtic, orchestrando la touche biancoverde con competenze specifiche di allenatore, oltre che in campo da saltatore.

Qualità che indussero Nick Mallett a convocare il compatriota per il Mondiale 2011 in Nuova Zelanda, anche se poi l’esperienza azzurra si fermò a soli 7 caps. Qualità per le quali Franco Smith ha rivoluto al suo fianco Van Zyl – 36enne e già deciso a chiudere con il rugby giocato – nella nuova avventura dei Cheetahs, come assistente per gli avanti.

Dopo 162 partite in maglia biancoverde, 7 mete, 3 soli cartellini gialli, dopo tante prove di sostanza nel cuore del pack ed anche un prestigioso passaggio nei Barbarians, Cernal, il colonnello biancoverde, uscirà sabato prossimo per l’ultima volta dagli spogliatoi di Monigo.

«Sarà una emozione grandissima, anzi tante emozioni insieme», spiega, «otto anni sono passati velocissimi, ma sono stati un pezzo di vita importante. Come giocatore, ma non solo: io e Donna ci siamo sposati due settimane dopo il nostro arrivo a Treviso, le nostre due figlie sono nate per caso in Sud Africa, perché era estate, ma portano nomi italiani, Chiara e Giada. Mamma mia, l’Italia e il Benetton ci mancheranno fin dal primo giorno a Bloemfontein».

Tdr. Un bilancio sportivo di otto stagioni in biancoverde.

Cernal. «Il Benetton è cambiato molto, abbiamo vissuto anche dei periodi di grande difficoltà, sia all’inizio ai tempi del Super 10, quando Franco Smith era appena arrivato, sia negli ultimi due anni. Ci siamo levati delle grandissime soddisfazioni: ricordo quando battemmo il Perpignan in Heineken Cup, un risultato che sembrava impossibile per una squadra italiana».

«Ma poi ancora la vittoria sul Biarritz, o più recentemente il pari a Belfast segnando 29 punti e il successo sul Munster del 2013, con 5 mete senza i nostri nazionali. Ho visto un bel cambiamento di mentalità. Anche nei periodi più duri la squadra ha lottato, è sempre uscita a testa alta. E diversi giocatori hanno saputo lavorare e crescere, facendo il salto di qualità da “normali” a giocatori di livello internazionale».

Tdr. Cosa manca al rugby italiano per essere competitivo?

Cernal. «Mancano, secondo me, delle strutture più organizzate. Soprattutto delle strutture che aiutino i ragazzi più giovani a crescere, ad avere un punto di arrivo in cui credere. Treviso ha tutto per diventare un grande club, ma nelle ultime stagioni c’è stata molta incertezza sul futuro, mentre la programmazione deve essere a lungo termine».

«Credo anche che al rugby italiano servirebbero meno giocatori stranieri e più allenatori stranieri. Ovviamente, bravi allenatori. Il giocatore straniero è un esempio che può far crescere gli altri giocatori, soprattutto del suo ruolo, ma l’allenatore ha un’influenza maggiore. Un buon coach fa cambiare la mentalità, fa crescere tutto il gruppo».

Tdr. E la sua carriera di allenatore comincia fra poche settimane…

Cernal. «E’ stata un po’ una coincidenza fortunata. Franco Smith mi aveva parlato di un ruolo come assistente in futuro, poi è successo che Os Du Randt ha deciso di lasciare i Cheetahs con un anno di anticipo e quindi da metà giugno inizierà l’avventura. Sono entusiasta, ma so anche che è tutto da costruire e che, mamma mia, sarà davvero una stagione dura».

Tdr. Che Benetton lascia?

Cernal. «E’ una squadra che migliora e che continua a lottare, anche in una stagione così difficile come questa. Nelle ultime partite non c’erano particolari obiettivi, ma i ragazzi si sono impegnati, si sono sacrificati, e l’hanno fatto solo per la maglia che vestono».

 

(foto Rita Grosso e Marco Sartori)

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Piccoli grandi club: il progetto Valsugana e due finali in 24 ore

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Si prospetta un weekend davvero intenso per il Valsugana e per i suoi tifosi. Due finali-scudetto in 24 ore per il club di Altichiero: sabato la “prima volta” delle Valsugirls, che a Parma affrontano il Monza per il tricolore femminile, domenica l’atto decisivo per l’under 16 che a Reggio Emilia affronta il Livorno per portare in bacheca il terzo titolo giovanile dopo l’accoppiata del 2009-2010.

E tutto questo all’indomani di un trionfale Trofeo Topolino, che ha visto la Junior sul podio dall’under 8 all’under 14; all’indomani di un Sei Nazioni 2015 con 8 virgulti del vivaio biancoceleste protagonisti con la maglia dell’Italia (Beatrice Rigoni, Valentina Ruzza, Maria Diletta Veronese, Paola Zangirolami ed Elisa Giordano fra le azzurre, Dennis Bergamin, Matteo Minozzi e Tommaso Beraldin nell’Under 20 di Troncon); e ancora alla vigilia della prima stagione di Pro12 del seconda linea Federico Ruzza, fratello di Valentina, ingaggiato dalle Zebre dopo la positiva stagione a Viadana.

Sorpresa Valsu? Miracolo Valsu? Gli addetti ai lavori non parlerebbero in questi termini. Pur non avendo alle spalle la tradizione dei grandi nomi del rugby veneto, la società di Altichiero da tempo svolge un lavoro d’avanguardia.

Un club modello per strutture e metodi d’insegnamento, che si avvale di un director of rugby - il formatore dei formatori di cui tanto si parla – e di un coordinatore tecnico del settore giovanile dalle competenze di Polla Roux e del francese Youssef Darbal.

«Le due finali del prossimo weekend sono una grande soddisfazione ma allo stesso tempo un risultato atteso, a conclusione di una progettazione di lungo termine», spiega il presidente Fabio Beraldin, indimenticato capitano del Petrarca. Con i più nobili cugini padovani la rivalità è sentita, ma sana: due domeniche fa, per la semifinale under 16 contro Bergamo, a fare il “corridoio” per il Valsu c’erano proprio i pari età petrarchini, in precedenza sconfitti di misura nel derby.

«Le società che non hanno un padrone o un grande sponsor devono pensare ad una programmazione condivisa», continua Beraldin, «noi arriviamo oggi alla fine di un secondo piano di lavoro quadriennale, avendo sviluppato le nostre idee con continuità dal 2007. C’è un percorso che conduce dal minirugby alla prima squadra e manteniamo chiari i nostri principi, vision e mission così come la carta etica della società. Le ragazze non sono una sezione staccata come succede altrove, ma fanno parte a pieno titolo della vita del club e del nostro progetto tecnico».

E così dopo un paio di semifinali le Valsugirls sono esplose in questa stagione, approdando ancora imbattute alla sfida decisiva di sabato. Il Monza è campione d’Italia ma intanto Paola Zangirolami e compagne l’hanno già castigato due volte nella stagione regolare. Quasi quasi le biancocelesti partono da favorite…

«No, favorite non ci vogliamo considerare, ma siamo serene e sicure di noi stesse, pronte ad affrontare il Monza ormai senza nessun timore reverenziale», commenta Roberta “Obe” Giraudo, team manager e, da pioniera del rugby femminile padovano, punto di riferimento per tutte le Valsugirls, «la partita secca è sempre un’incognita. Siamo una squadra giovane, solo al quinto campionato a XV. E si tratta della prima finale, a differenza delle nostre avversarie. Ma abbiamo tutte le qualità per imporci, come abbiamo già dimostrato».

I tecnici Nicola Bezzati e Luca Faggin hanno a disposizione la formazione migliore, con la sola eccezione della terza linea Beatrice Fenato, infortunatasi ad una mano in semifinale.

 

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Ivan il Selvaggio, il più amato

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Chi è il giocatore del rugby trevigiano più amato di sempre? I tifosi hanno risposto Ivan Francescato, e forse non poteva essere che così.

L’idea di organizzare un sondaggio sul migliore all-time in maglia biancoverde è venuta ai Veterani dello Sport e agli organizzatori della mostra “Rugby e dintorni”, realizzata dal 1° al 10 maggio a Casier. I visitatori hanno votato il loro preferito, scegliendo Ivan.

Sul podio con il più giovane dei sei fratelli Francescato due stranieri di classe assoluta, il neozelandese John Kirwan e l’australiano Brendan Williams.

Cresciuto nella Tarvisium, Ivan Francescato è stato uno dei grandi protagonisti del rugby italiano degli anni Novanta, con le maglie sia della Nazionale che della Benetton. Ma è per la sua incredibile capacità di stare in mezzo alla gente che a Treviso rimane vivissimo il ricordo del “Selvaggio”, il più popolare dei suoi soprannomi che di Ivan sintetizza il carattere spontaneo, libero e autentico.

Riproponiamo le parole di allenatori e compagni che gli sono stati vicini. I brani sono tratti dal libro “La finta di Ivan. Mete, placcaggi e terzi tempi infiniti: il rugby di Francescato”, scritto con Andrea Passerini.

 

Georges Coste e “Ivàn”

Quando viene scelto per allenare la Nazionale italiana, su indicazione di Pierre Villepreux, Coste ha alle spalle un’esperienza di tecnico in fondo modesta, prima nel Séte e quindi nello staff del Perpignan, sua città natale nella Catalogna francese.

Fa l’insegnante di educazione fisica nelle scuole, in particolare si occupa di progetti che coinvolgono ragazzi in condizioni di disagio. Classe 1944, è stato un promettente mediano di mischia prima di vedere stroncata la sua carriera da un grave infortunio.

E’ un omino tarchiato, una folta testa di capelli, schietto nei giudizi e grande comunicatore. Nella lunga permanenza nel nostro paese sviluppa per esprimersi un suo personalissimo idioma, che è un gustoso pastiche di catalano, italiano e francese. “Livello”, ad esempio, per Coste è sempre “nivello”, la battaglia in campo è “combate”.

Quando parla di qualcosa che gli sta a cuore – ed il rugby gli sta a cuore – a volte si infervora, alza la voce e agita le mani. Quando parla di Ivan, che per lui è sempre stato “Ivàn”, alla francese, gli occhi si velano di commozione.

«Ivàn è stato come un figlio. L’immagine che ho conservato più cara è di lui che si siede a tavola con la squadra, non aspetta che servano il primo ma si mette a mangiare di nascosto il pane con l’olio, dando di gomito a Giovanelli. Come un bambino che vuole fare il furbo».

«Ivàn giocatore era un creativo, un artista imprevedibile anche per i compagni. Cambio di passo micidiale, non sbagliava mai un placcaggio e non aveva paura di nessuno. Puzzava di rugby, aveva tutto di innato come nessun altro della sua generazione, che pure era piena di talenti».

 

In volo per l’Australia

Il volo in aereo non finisce mai. Alcuni azzurri giocano a carte, qualcuno sfoglia un giornale, fortunato chi riesce a dormire. La truppa, che viaggia con la divisa ufficiale, è sbracata: cravatta nella tasca della giacca, camicie fuori dei pantaloni.

Claudio De Rossi si è levato le scarpe ed è andato via col sonno. Ivan, furtivo, slaccia le sue, di scarpe, e le sostituisce con quelle dell’altro trevisano. “Caio” gioca terza, due spalle come un armadio. Uno molto per i fatti suoi, bon fiol ma un po’ burbero. Fra i piedi suoi e quelli di Ivan ci saranno minimo tre misure di differenza.

Quando l’altoparlante annuncia l’atterraggio infila le scarpe e le trova decisamente strette. E Ivan: «Ma varda Caio che sé normal, perché col viaggio i pìe se sgionfa. Sé normal. Dopo passa». Sarà. Però, diobòn, fa mal. Alle spalle della vittima dello scherzo gli altri se la ridono.

Atterraggio. La trafila per il ritiro dei bagagli. Caio trascina i piedi, una smorfia di dolore sul volto. Ivan naviga coi piedi dentro alle scarpe di Caio, come Charlie Chaplin, e abbassa un po’ le braghe per non farsi vedere. «Ma sito sicuro, Ivan?» «Massì Caio, succede, sé normal». Gli altri azzurri non riescono più a trattenere le risate, qualcuno ha le lacrime agli occhi. Ivan no: sempre serio di fronte a Caio, da perfetto attore. Ma alla fine la capisce anche Caio. «Ivaaaan, desgrassià, te copo!» Fortuna che Ivan corre rapidissimo…

 

Gli amici, le risate e i silenzi

«La mia Italia aveva un capobranco dentro al campo ed era Massimo Giovanelli, e un capobranco fuori e quello era Ivàn», dice Georges Coste. Finita la partita, concluso il protocollo ufficiale, il branco si scatena. Ed il capo del branco, non c’è dubbio, è lui. Fra i compagni, prima ancora che commozione, il nome di Ivan suscita sorrisi. Il ricordo diventa racconto, aneddoto. Le sue trovate. Imprevedibili, come la sua finta, il suo guizzo sugli spazi stretti.

Quando attaccava con le barzellette. Sempre le stesse, ma recitate con tanta maestria da non perdere mai l’effetto. Lui racconta, la tira lunga infarcendo la barzelletta di altre battute, e alla fine scoppia in una rumosata risata, irresistibilmente contagiosa. Il Treviso una volta è a cena dai Benetton, presenti i patron Gilberto e Luciano. Il contesto è elegante, l’atmosfera è impettita e un po’ pallosa. Finchè Ivan: «Ma ve go mai contà quea del cavao coa stea?». E chi lo ferma più.

Quando attaccava con le canzoni. “O sole mio”, “Volare”, “Cielito lindo”, quelle giuste per colpire anche all’estero e trascinare la truppa nei cori. Quando ballava, a modo tutto suo. Quando si lanciava con l’inglese e il francese, senza saperne una parola. E con lo spagnolo, impastricciato di trevisano, nelle notti infinite a Pamplona, durante la fiesta di San Fermìn assieme all’amico Manuel.

Quando ad Auch, nella cerimonia di chiusura della Coppa Latina ’97, inventa un one-man-show. Duetta con il pilone argentino Omar Hasan, che ha voce di tenore. Si intrufola nel coro sul palco. Fa il direttore d’orchestra con l’altro puma Agustin Pichot. La sala è conquistata, travolta dalle risate.

Quando a Grenoble, poche ore dopo le lacrime sul campo, guida la caciara con gli amici del “Bar Thema”, arrivati da Villorba con una berlina piena di prosecco. E poi fino a mattina.

Quando al Nevegàl scoppia una bufera di grandine e per proteggere la carrozzeria della macchina nuova, Ivan “fodera” la Mercedes delle maglie prelevate dalle borse dei compagni. E poi, finite le maglie, si stende lui stesso sul cofano.

Massimo Giovanelli: «Ci sono persone che ti fa piacere vedere, ma delle quali poi non ti resta molto. Come quei vini che hanno un gran profumo, che promettono chissà cosa, ma poi non c’è consistenza, non c’è corpo. Ivan invece era uno che non aveva cultura, non leggeva libri, non gliene fregava niente del vestirsi, ma sapeva stare in mezzo alla gente. Era un raggio di luce nella quotidianità».

Gianni Zanon: «Con il suo modo di fare era una calamita per le persone, dove c’era lui c’era sempre un gruppo in attesa che cominciasse lo spettacolo». Walter “Cristo” Cristofoletto: «Ivan avrebbe potuto fare l’attore. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, avere le gente tutto intorno a lui che aspettava la sua barzelletta. Però era lui a dettare i tempi. A volte si isolava del tutto dal gruppo, si metteva a pensare alle sue cose e per delle ore non rivolgeva la parola a nessuno».

I silenzi sono l’altro lato del carattere di Ivan. Alessandro Troncon: «Lui te lo diceva chiaramente: “Ceo, assime star che gò na brutta giornada”. Sapevamo che bisognava lasciarlo in pace, si assentava completamente». Passato il momento, Ivan torna al centro della scena.

 

Ino Pizzolato e l’istinto

Ino, cioè Luigino Pizzolato, è la Tarvisium. Era già un giocatore nel Lupino, e poi uno dei fondatori delle magliette rosse con Natalino Cadamuro. Di lavoro ferroviere, dividendo il tempo libero fra la famiglia e la dedizione totale all’insegnamento del rugby, ha formato centinaia di ragazzi e scovato decine di talenti poi giunti fino alla maglia azzurra.

I baffoni e il naso da Cirano de Bergerac tracciano una fisionomia inconfondibile. Ino, altrimenti detto anche “il vecio”, è di poche parole e di non facili entusiasmi, un carattere all’apparenza ombroso. Quando Ivan aveva ormai deciso di smettere con il rugby, Ino si è messo in testa che doveva continuare. Se poi Ivan è divenuto un giocatore di livello internazionale, di sicuro c’entra un po’ anche Ino.

«Ivan si può dire che l’ho visto nascere, dato che a San Giuseppe ci frequentavamo con i Francescato», ricorda, «me lo rivedo dall’Antonia a rompere le scatole agli adulti, abitavano a 300 metri dal bar e Ivan arrivava sempre correndo, da bambino non l’ho mai visto camminare. Poi me lo ricordo sul campo della Tarvisium, non saprei dire quando ha cominciato perché per me Ivan ghe sé sempre sta».

«Onestamente, al di là dell’affetto, Ivan è stato il giocatore di maggior talento che io abbia avuto modo di allenare. Talento puro e innato. Sui campi italiani è sempre stato vincente nell’uno-contro-uno, non mi viene in mente un avversario che sia stato in grado di batterlo. A 17 anni aveva già l’intelligenza di gioco di un adulto. Secondo me non aveva rivali come mediano di mischia, ma in Nazionale gli preferivano sempre qualcun altro».

«Aveva dei detrattori, soprattutto perché non era un giocatore classico: non guidava la mischia con le parole ma con l’esempio, bisognava conoscerlo, capirlo, stargli dietro, erano meccanismi chiari in Tarvisium ma non così immediati quando Ivan si ritrovava dietro ad un’altra mischia. Era un istintivo, un fantasioso in attacco, ma questo aspetto di spontaneità era bilanciato dalla razionalità con cui gestiva le situazioni difensive. Ritrovandosi in due contro uno, o anche in tre contro uno, sapeva trovare la giusta posizione e il momento perfetto per placcare. Non lo passavi. Sia in attacco che in difesa Ivan si esaltava nella sfida con l’avversario, nel batterlo con l’astuzia».

Ino conosce anche le sfumature del carattere di Ivan, non solo l’irresistibile versione goliardica ma anche i suoi umori, i suoi silenzi. «Viveva il rugby come un vero divertimento, quindi per giocare bene doveva innanzitutto stare bene con se stesso. Quando arrivava al campo lo capivo subito che giornata aveva, in fin dei conti lo conoscevo da bambino, per me era come un fratello piccolo».

«Se arrivava sorridendo, era la giornata giusta e in campo avrebbe fatto strage. Se arrivava serio, con il muso, allora bisognava tirargli fuori il rospo. Allora me lo prendevo in disparte. “Cossa gatu, Ivan?”. “Niente, niente, tutto ben”. “Ma dai Ivan, a mi vuto contàrmea?”. Così Ivan si apriva, parlava, si liberava dei suoi pensieri. E allora era pronto a divertirsi in campo, e quindi ad essere il migliore come sempre».

 

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Gli ultimi ottanta minuti dopo 25 anni di attesa. Rovigo, tocca a te

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Era il 26 maggio 1990 e a Brescia i tifosi dell’allora Cz Cagnoni Rovigo festeggiavano lo scudetto numero 11 del club rossoblù. Oggi, poco più di 25 anni dopo, la scena potrebbe ripetersi, anche se di certo ogni appassionato rodigino sta facendo gli scongiuri leggendo questa frase.

Dai tempi di Naas Botha il rugby è cambiato, in Italia e nel mondo. Gli appassionati rossoblù hanno atteso con fede immutata l’arrivo di un nuovo titolo, passando anche attraverso lo psicodramma di due finali perse. Il pubblico più caldo e la città più ovale d’Italia si meritano di tornare a festeggiare: gran parte del movimento, idealmente, fa il tifo per i Bersaglieri questa sera.

Che queste immagini di archivio possa essere di buon auspicio. Appuntamento in un Battaglini esaurito, o su Rai Sport, dalle 18.

 

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Il burnout di Rovigo, lo scudetto del tifo e dell’arbitraggio

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Solo Rovigo poteva perdere la finale in casa, di fronte al suo caldissimo pubblico e dopo una stagione dominata. Ed è accaduto ancora, come quattro anni fa in quell’incredibile e indimenticato derby con il Petrarca. La pressione era ovviamente tutta sulle spalle dei rossoblù e appare chiaro che lo stress non è stato gestito in modo adeguato.

La squadra è giunta all’appuntamento in piena sindrome da burnout, tanto timorosa dal non farsi prendere dalla frenesia da apparire svuotata di motivazioni e di voglia di combattimento.

Con un doppio disastroso esito: perdere il match e far sentire tradito il magnifico pubblico del Battaglini. Per il coach Filippo Frati il poco onorevole record di quattro finali di Eccellenza chiuse con una sconfitta (le prime due sulla panchina di Prato).

Calvisano si è imposto meritatamente. Non è una consolazione ma a Rovigo va senza dubbio lo scudetto del tifo. Non tanto per l’incitamento incessante ai beniamini durante la finale – naturale – ma soprattutto per i non scontati applausi rivolti ai vincitori al termine della gara.

Se quella polesana è la più verace delle platee del rugby italiano, quindi anche con una certa inclinazione alla polemica, il Battaglini ha dimostrato sabato che a sbagliarsi era il presidente federale Alfredo Gavazzi, il quale aveva annunciato di voler disertare l’evento (per paura delle contestazioni dopo il bailamme della passata finale?).

Gli oscar di giornata vanno anche all’arbitraggio di Marius Mitrea, ormai di gran lunga il miglior fischietto in Italia e prossimo all’avventura dei Mondiali inglesi; e al sudafricano Braam Steyn, capace di vincere tre scudetti di fila con le maglie del Mogliano e del Calvisano.

Come noto, l’ex Springbok junior la prossima stagione sarà al Benetton del suo mentore Umberto Casellato per dimostrare di essere un giocatore adeguato al livello del Pro12 e della Champions Cup.

Resta la delusione dei tifosi e dell’ambiente rossoblù, sintetizzata nelle lacrime di Luke Mahoney. Il neozelandese lascia dopo sette stagioni, vissute da capitano e da simbolo dell’approccio al rugby più autentico.

 

(foto Alfio Guarise)

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Remuntada Paese, Casale perfetto. Che doppietta nel lombardo-veneto

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Per Casale sul Sile e i suoi Caimani il purgatorio è finito. A conclusione di una stagione quasi immacolata, il club biancorosso ha festeggiato domenica sera allo stadio “Eugenio” il ritorno in serie A, una categoria più adeguata rispetto alla tradizione e all’importanza del rugby nella cittadina lungo il fiume.

L’attesa è durata 19 anni, durante i quali Casale è stata costretta ad assaggiare addirittura la C. «Era un obiettivo che inseguivamo da tempo, raggiunto con una politica dei piccoli passi, consolidandoci stagione dopo stagione», commenta il presidente Claudio Perazza, in sella fin dal 2002.

Vinta la regular season nel durissimo girone veneto, vinta a Lecco la semifinale di andata con bottino pieno, al Dopla non restavano che ottanta minuti da consumare di fronte al proprio pubblico prima di dare il via alla festa. Gli ospiti lombardi sono stati capaci di reggere fino al 12-12 di inizio ripresa.

«Poi la squadra ha ritrovato la giusta concentrazione e ha risolto la partita», spiegava l’allenatore Gianni Zaffalon alla fine del match, finito 22-19 per i biancorossi, «onore ai nostri avversari, bravi a giocare da qualsiasi posizione del campo, ma bravi soprattutto i ragazzi, che in questa stagione sono stati perfetti».

Dopo la sconfitta in casa in occasione dell’Ongaro Day Casale ha infilato 13 successi e un pareggio, regalando a Zaffalon la seconda promozione in quattro anni. Ma la stagione non è stata priva di tensioni nell’ambiente biancorosso, che da troppo tempo sognava la A. Ora, a missione compiuta, fra il club e Zaffalon c’è un divorzio consensuale. Casale cerca allenatore (gira il nome di Federico Dalla Nora) e qualche necessario rinforzo per l’avventura della A, dove ritroverà i derby con la Tarvisium e il Paese.

Paese protagonista di una clamorosa remuntada, che nessuno si attendeva dopo che il Parabiago di Martin Murgier, ex Calvisano, aveva portato via cinque punti dal “Visentin” nell’andata. «In tutta sincerità prima della partita pensavo che mi sarebbe bastato uscire dal campo a testa alta, evitando la batosta», ammette il presidente Paolo Pavin, «l’impresa di domenica, invece, entra direttamente nella storia del nostro club».

Al cambio di campo Parabiago conduceva 15-12 con tutti i punti firmati dall’altro argentino Juan Pablo Sanchez, già Rovigo, Petrarca, Viadana. Un errore dei padroni di casa, quello di pensare già alla festa. Perché Mario Pavin e Checco Pavan, coinvolgendo tutto il gruppo (giovanissimi compresi), avevano convinto i Canguri che la rimonta era possibile e bisognava crederci fino alla fine. Nella ripresa Paese segna quattro mete, con doppiette degli scatenati Luca Pagotto ed Enrico Passuello.

Le sei mete cancellano il 5-0 dell’andata, il 38-15 finale rovescia il 32-24 con una differenza-punti che manda in A il Padana Paese. Il campo di Parabiago, già inghirlandato a festa, diventa così lo scenario della gioia dei trevigiani. Singolarmente i colori sociali rossoblù erano gli stessi.

Adesso si fermano due veterani decisivi come Agostino Cadorin e Massimo “Caps” Mennelle; quest’ultimo entra comunque nello staff assieme ai confermati Pavin e Pavan per allenare touche e mischia. A Paese si farà comunque con le risorse di casa, con la solita attenzione alla… spending review.

Intanto in ballo c’è la scommessa dello sponsor e il suo desiderio di offrire alla squadra un viaggio a Medjugorje. Se ne riparlerà presto, tanto più dopo il risultato davvero miracoloso di Parabiago.

 

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I formidabili anni Settanta del rugby. Campanile, politica e poco fair play

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La crescita di attenzione degli ultimi dieci anni ha cambiato radicalmente l’immagine del rugby presso il grande pubblico, che oggi lo percepisce come una disciplina da prendere a modello per il rispetto delle regole e degli avversari, per il fair play, per i suoi valori educativi.

Scudetti veneti e crisi italiana. Innocenti: «Gestione sbagliata, tutto da cambiare»

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Argomento della chiacchierata con Marzio Innocenti dovevano essere gli scudetti giovanili conquistati dal Veneto grazie a Mogliano (u18) e Valsugana (u16, u15, ed è giunto anche il titolo femminile). Il telefono, però, squilla dopo il match malamente perso dagli azzurrini ai Mondiali Junior contro l’Argentina, e nel giorno peraltro dell’ammutinamento della Nazionale dal ritiro di Villabassa.

Il discorso finisce per legare il particolare al generale, temi della regione alle condizioni di salute del movimento rugbistico che definiremmo di “coma vigile”.

«Mi sento stanco, stanco di dirigenti che non hanno saputo evitare che esplodesse il caso dei premi della Nazionale, di un sistema di Accademie che ha prodotto un’Italia under 20 così poco competitiva», accusa il presidente del Comitato Regionale Veneto«lasciamo da parte il politically correct e diciamo quella verità che è evidente a tutti, alla luce dei risultati di tutte le Nazionali dalla maggiore alla juniores e agli Emergenti: la gestione del nostro rugby è sbagliata e fallimentare».

Tdr. Il Veneto conclude la stagione con un en plein di titoli, è mancato solo lo scudetto dell’Eccellenza, sfuggito al Rovigo. Dovrebbe essere soddisfatto.

«Conosco bene il Valsugana, che ho anche allenato: un’ottima società, che da anni lavora seriamente, direi scientificamente, per lo sviluppo tecnico. Lo stesso vale per il Mogliano in queste stagioni del presidente Roberto Facchini, ma sono molti i club che a diversa dimensione lavorano con grande attenzione: dal Villorba al Cus Verona, dal Vicenza al Mira, al VeneziaMestre, al Rubano, e così via».

«In Veneto c’è un tessuto di società fitto e qualificato, si svolge un’attività che è di livello nettamente superiore rispetto al resto d’Italia. Ma potremmo fare molto di più se la smettessero di darci battaglia. Oggi la nostra crescita è bloccata, anzi per colpa di Accademie e Centri di formazione c’è un depauperamento dei club e dei valori di appartenenza».

Tdr. Quali ostacoli impediscono la crescita?

«Faccio degli esempi. Abbiamo chiesto un torneo under 20, anche a carattere regionale, per non perdere i ragazzi usciti dall’under 18. Vorremmo un torneo delle seconde squadre. Vorremmo un Benetton in Eccellenza con una sua accademia e un meccanismo di scambio di giocatori con il Pro12. Il Veneto viaggia ad un altro ritmo, lo si lasci libero di correre secondo le sue esigenze. Regole che sono adeguate in altre regioni sono limitanti per noi: penso ad esempio alla riduzione di giocatori nel minirugby. Se crolla anche il Veneto, crolla l’intero movimento».

Tdr. Dal punto di vista dei numeri, la superiorità del Veneto viene contestata.

«Premetto che trovo irrilevante la questione delle statistiche rispetto alla qualità del lavoro, dimostrabile con i risultati. Chi parla del numero dei praticanti della Lombardia dovrebbe comunque rapportarlo agli abitanti della regione, che sono 10 milioni contro i 5 del Veneto. Ma l’intera questione generale va riconsiderata: tra tesserati e praticanti c’è uno scarto del 30%. I praticanti non sono più di 45-50 mila in Italia. Bisogna smetterla di dire che il nostro sport è in espansione».

Tdr. Lei ha sempre criticato duramente il sistema delle Accademie.

«Il risultato di tutti gli sforzi e gli investimenti di dieci anni si può vedere in Italia-Argentina del Mondiale Junior. In Veneto, in particolare, Accademie e Centri di formazione non sono solo inutili, ma dannosi. Ci si lasci gestire la formazione adattandola alle realtà del territorio. E tenendo fermi l’appartenenza e le motivazioni, valori morali che continuano ad essere importanti nel rugby».

 

(Nella foto di Alfio Guarise, il Mogliano campione d’Italia under 18)

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Partecipazione e goliardia a Bassano. E’ il Dodici Banconi

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L’idea venne otto anni fa e fu chiaro fin da subito che quello di Bassano sarebbe stato qualcosa di più che un torneo dei bar, come ne sono stati fatti molti in Veneto. Perchè l’obiettivo qui era coinvolgere il maggior numero possibile di adepti anche, anzi soprattutto, fuori dal giro del rugby. Se domani alla cena finale del Dodici Banconi i coperti saranno più di 500, vuol dire che la scommessa è stata vinta.

Solo dolci colli separano la città del Grappa dal cuore ovale della regione, eppure da sempre Bassano risente di questa marginalità geografica. L’ambiente giallorosso è una realtà vivace, produce talenti, ha tutti i crismi del buon rugby a cominciare da una grande voglia di stare assieme e divertirsi; eppure i risultati dell’hockey e del calcio lo spingono in periferia nelle preferenze sportive locali.

Nel sabato del Dodici Banconi, però, il rugby è protagonista. Rugby al tocco e a sette, d’accordo, ma sempre rugby con la sua carica di goliardia e di coinvolgimento.

Si sfidano i locali del tirar tardi, la coppa per i trionfatori è una spina di birra: domani pomeriggio al parco Ragazzi del ‘99 lo rimettono in palio quelli del Mistral. La squadra di Sotto Underbar prova invece a dar via il poco onorevole trofeo “Mani di pietra”, un ovale in granito assegnato – ovvio – ai meno prolifici nel conto delle mete. Per l’evento c’è anche una canzone ad hoc, firmata da i T.O.S.I.

Per regolamento ogni team dovrà schierare due giocatori tesserati, due non tesserati, una ragazza, un old, un atleta junior. Al via 16 squadre, facile che si presenti anche qualche nome noto del rugby nazionale, come Fabio Semenzato ed Ezio Galon già visti nei passati Dodici Banconi. Ben nove le compagini femminili. Last but not least, in serata e nottata uno sfrenato terzo tempo allo Skyroom.

 

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Le ambizioni del San Donà. E Andrea Cincotto va a Tolone

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Si rinnovano le ambizioni del San Donà, che per la stagione 2015-16 punta a centrare l’obiettivo dei playoff sfumato per un soffio quest’anno. Il club piavense ha ufficializzato la conferma in panchina di Jason Wright, artefice dell’ascesa della prima squadra alla dimensione di protagonista dell’Eccellenza italiana.

Il neozelandese sarà affiancato alla guida tecnica dal sudafricano Zane Ansell. L’ex terza linea di Benetton, Mogliano e Petrarca (a Padova ha cominciato anche la sua carriera da allenatore) si prenderà cura della mischia sostituendo Mauro Dal Sie. Ansell allenerà anche l’under 18 assieme a Jaco Erasmus e al rientrante Giacomo Fedrigo.

Grandi manovre in corso per la rosa della prima squadra. Mentre erano cosa nota le partenze di Cornwell (ritiro, sarà team manager a Leicester), Filippetto (Treviso), Dotta e Pilla, la novità riguarda il pilone Andrea Cincotto, nella foto, reduce da una positiva Junior World Cup con la Nazionale azzurra. Il sandonatese, figlio d’arte, sarebbe pronto a fare un’esperienza a Tolone, nel club tre volte campione d’Europa che da tempo setaccia promettenti giocatori di prima linea per “costruirli” nel suo vivaio.

Bernini e Giovanchelli vanno rispettivamente a Rovigo e a Calvisano. Il club lombardo ha messo a segno un bel colpo con l’ingaggio dell’azzurrino Luhandre Luus, sudafricano formatosi nella academy degli Sharks. Con lui anche gli altri under Minozzi e Riccioni.

Intanto a San Donà sul fronte arrivi ritorna da Treviso il tallonatore Amar Kudin e approda dai Lyons Piacenza il trequarti Michele Mortali.

 

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