Chi è il giocatore del rugby trevigiano più amato di sempre? I tifosi hanno risposto Ivan Francescato, e forse non poteva essere che così.
L’idea di organizzare un sondaggio sul migliore all-time in maglia biancoverde è venuta ai Veterani dello Sport e agli organizzatori della mostra “Rugby e dintorni”, realizzata dal 1° al 10 maggio a Casier. I visitatori hanno votato il loro preferito, scegliendo Ivan.
Sul podio con il più giovane dei sei fratelli Francescato due stranieri di classe assoluta, il neozelandese John Kirwan e l’australiano Brendan Williams.
Cresciuto nella Tarvisium, Ivan Francescato è stato uno dei grandi protagonisti del rugby italiano degli anni Novanta, con le maglie sia della Nazionale che della Benetton. Ma è per la sua incredibile capacità di stare in mezzo alla gente che a Treviso rimane vivissimo il ricordo del “Selvaggio”, il più popolare dei suoi soprannomi che di Ivan sintetizza il carattere spontaneo, libero e autentico.
Riproponiamo le parole di allenatori e compagni che gli sono stati vicini. I brani sono tratti dal libro “La finta di Ivan. Mete, placcaggi e terzi tempi infiniti: il rugby di Francescato”, scritto con Andrea Passerini.
Georges Coste e “Ivàn”
Quando viene scelto per allenare la Nazionale italiana, su indicazione di Pierre Villepreux, Coste ha alle spalle un’esperienza di tecnico in fondo modesta, prima nel Séte e quindi nello staff del Perpignan, sua città natale nella Catalogna francese.
Fa l’insegnante di educazione fisica nelle scuole, in particolare si occupa di progetti che coinvolgono ragazzi in condizioni di disagio. Classe 1944, è stato un promettente mediano di mischia prima di vedere stroncata la sua carriera da un grave infortunio.
E’ un omino tarchiato, una folta testa di capelli, schietto nei giudizi e grande comunicatore. Nella lunga permanenza nel nostro paese sviluppa per esprimersi un suo personalissimo idioma, che è un gustoso pastiche di catalano, italiano e francese. “Livello”, ad esempio, per Coste è sempre “nivello”, la battaglia in campo è “combate”.
Quando parla di qualcosa che gli sta a cuore – ed il rugby gli sta a cuore – a volte si infervora, alza la voce e agita le mani. Quando parla di Ivan, che per lui è sempre stato “Ivàn”, alla francese, gli occhi si velano di commozione.
«Ivàn è stato come un figlio. L’immagine che ho conservato più cara è di lui che si siede a tavola con la squadra, non aspetta che servano il primo ma si mette a mangiare di nascosto il pane con l’olio, dando di gomito a Giovanelli. Come un bambino che vuole fare il furbo».
«Ivàn giocatore era un creativo, un artista imprevedibile anche per i compagni. Cambio di passo micidiale, non sbagliava mai un placcaggio e non aveva paura di nessuno. Puzzava di rugby, aveva tutto di innato come nessun altro della sua generazione, che pure era piena di talenti».
In volo per l’Australia
Il volo in aereo non finisce mai. Alcuni azzurri giocano a carte, qualcuno sfoglia un giornale, fortunato chi riesce a dormire. La truppa, che viaggia con la divisa ufficiale, è sbracata: cravatta nella tasca della giacca, camicie fuori dei pantaloni.
Claudio De Rossi si è levato le scarpe ed è andato via col sonno. Ivan, furtivo, slaccia le sue, di scarpe, e le sostituisce con quelle dell’altro trevisano. “Caio” gioca terza, due spalle come un armadio. Uno molto per i fatti suoi, bon fiol ma un po’ burbero. Fra i piedi suoi e quelli di Ivan ci saranno minimo tre misure di differenza.
Quando l’altoparlante annuncia l’atterraggio infila le scarpe e le trova decisamente strette. E Ivan: «Ma varda Caio che sé normal, perché col viaggio i pìe se sgionfa. Sé normal. Dopo passa». Sarà. Però, diobòn, fa mal. Alle spalle della vittima dello scherzo gli altri se la ridono.
Atterraggio. La trafila per il ritiro dei bagagli. Caio trascina i piedi, una smorfia di dolore sul volto. Ivan naviga coi piedi dentro alle scarpe di Caio, come Charlie Chaplin, e abbassa un po’ le braghe per non farsi vedere. «Ma sito sicuro, Ivan?» «Massì Caio, succede, sé normal». Gli altri azzurri non riescono più a trattenere le risate, qualcuno ha le lacrime agli occhi. Ivan no: sempre serio di fronte a Caio, da perfetto attore. Ma alla fine la capisce anche Caio. «Ivaaaan, desgrassià, te copo!» Fortuna che Ivan corre rapidissimo…
Gli amici, le risate e i silenzi
«La mia Italia aveva un capobranco dentro al campo ed era Massimo Giovanelli, e un capobranco fuori e quello era Ivàn», dice Georges Coste. Finita la partita, concluso il protocollo ufficiale, il branco si scatena. Ed il capo del branco, non c’è dubbio, è lui. Fra i compagni, prima ancora che commozione, il nome di Ivan suscita sorrisi. Il ricordo diventa racconto, aneddoto. Le sue trovate. Imprevedibili, come la sua finta, il suo guizzo sugli spazi stretti.
Quando attaccava con le barzellette. Sempre le stesse, ma recitate con tanta maestria da non perdere mai l’effetto. Lui racconta, la tira lunga infarcendo la barzelletta di altre battute, e alla fine scoppia in una rumosata risata, irresistibilmente contagiosa. Il Treviso una volta è a cena dai Benetton, presenti i patron Gilberto e Luciano. Il contesto è elegante, l’atmosfera è impettita e un po’ pallosa. Finchè Ivan: «Ma ve go mai contà quea del cavao coa stea?». E chi lo ferma più.
Quando attaccava con le canzoni. “O sole mio”, “Volare”, “Cielito lindo”, quelle giuste per colpire anche all’estero e trascinare la truppa nei cori. Quando ballava, a modo tutto suo. Quando si lanciava con l’inglese e il francese, senza saperne una parola. E con lo spagnolo, impastricciato di trevisano, nelle notti infinite a Pamplona, durante la fiesta di San Fermìn assieme all’amico Manuel.
Quando ad Auch, nella cerimonia di chiusura della Coppa Latina ’97, inventa un one-man-show. Duetta con il pilone argentino Omar Hasan, che ha voce di tenore. Si intrufola nel coro sul palco. Fa il direttore d’orchestra con l’altro puma Agustin Pichot. La sala è conquistata, travolta dalle risate.
Quando a Grenoble, poche ore dopo le lacrime sul campo, guida la caciara con gli amici del “Bar Thema”, arrivati da Villorba con una berlina piena di prosecco. E poi fino a mattina.
Quando al Nevegàl scoppia una bufera di grandine e per proteggere la carrozzeria della macchina nuova, Ivan “fodera” la Mercedes delle maglie prelevate dalle borse dei compagni. E poi, finite le maglie, si stende lui stesso sul cofano.
Massimo Giovanelli: «Ci sono persone che ti fa piacere vedere, ma delle quali poi non ti resta molto. Come quei vini che hanno un gran profumo, che promettono chissà cosa, ma poi non c’è consistenza, non c’è corpo. Ivan invece era uno che non aveva cultura, non leggeva libri, non gliene fregava niente del vestirsi, ma sapeva stare in mezzo alla gente. Era un raggio di luce nella quotidianità».
Gianni Zanon: «Con il suo modo di fare era una calamita per le persone, dove c’era lui c’era sempre un gruppo in attesa che cominciasse lo spettacolo». Walter “Cristo” Cristofoletto: «Ivan avrebbe potuto fare l’attore. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, avere le gente tutto intorno a lui che aspettava la sua barzelletta. Però era lui a dettare i tempi. A volte si isolava del tutto dal gruppo, si metteva a pensare alle sue cose e per delle ore non rivolgeva la parola a nessuno».
I silenzi sono l’altro lato del carattere di Ivan. Alessandro Troncon: «Lui te lo diceva chiaramente: “Ceo, assime star che gò na brutta giornada”. Sapevamo che bisognava lasciarlo in pace, si assentava completamente». Passato il momento, Ivan torna al centro della scena.
Ino Pizzolato e l’istinto
Ino, cioè Luigino Pizzolato, è la Tarvisium. Era già un giocatore nel Lupino, e poi uno dei fondatori delle magliette rosse con Natalino Cadamuro. Di lavoro ferroviere, dividendo il tempo libero fra la famiglia e la dedizione totale all’insegnamento del rugby, ha formato centinaia di ragazzi e scovato decine di talenti poi giunti fino alla maglia azzurra.
I baffoni e il naso da Cirano de Bergerac tracciano una fisionomia inconfondibile. Ino, altrimenti detto anche “il vecio”, è di poche parole e di non facili entusiasmi, un carattere all’apparenza ombroso. Quando Ivan aveva ormai deciso di smettere con il rugby, Ino si è messo in testa che doveva continuare. Se poi Ivan è divenuto un giocatore di livello internazionale, di sicuro c’entra un po’ anche Ino.
«Ivan si può dire che l’ho visto nascere, dato che a San Giuseppe ci frequentavamo con i Francescato», ricorda, «me lo rivedo dall’Antonia a rompere le scatole agli adulti, abitavano a 300 metri dal bar e Ivan arrivava sempre correndo, da bambino non l’ho mai visto camminare. Poi me lo ricordo sul campo della Tarvisium, non saprei dire quando ha cominciato perché per me Ivan ghe sé sempre sta».
«Onestamente, al di là dell’affetto, Ivan è stato il giocatore di maggior talento che io abbia avuto modo di allenare. Talento puro e innato. Sui campi italiani è sempre stato vincente nell’uno-contro-uno, non mi viene in mente un avversario che sia stato in grado di batterlo. A 17 anni aveva già l’intelligenza di gioco di un adulto. Secondo me non aveva rivali come mediano di mischia, ma in Nazionale gli preferivano sempre qualcun altro».
«Aveva dei detrattori, soprattutto perché non era un giocatore classico: non guidava la mischia con le parole ma con l’esempio, bisognava conoscerlo, capirlo, stargli dietro, erano meccanismi chiari in Tarvisium ma non così immediati quando Ivan si ritrovava dietro ad un’altra mischia. Era un istintivo, un fantasioso in attacco, ma questo aspetto di spontaneità era bilanciato dalla razionalità con cui gestiva le situazioni difensive. Ritrovandosi in due contro uno, o anche in tre contro uno, sapeva trovare la giusta posizione e il momento perfetto per placcare. Non lo passavi. Sia in attacco che in difesa Ivan si esaltava nella sfida con l’avversario, nel batterlo con l’astuzia».
Ino conosce anche le sfumature del carattere di Ivan, non solo l’irresistibile versione goliardica ma anche i suoi umori, i suoi silenzi. «Viveva il rugby come un vero divertimento, quindi per giocare bene doveva innanzitutto stare bene con se stesso. Quando arrivava al campo lo capivo subito che giornata aveva, in fin dei conti lo conoscevo da bambino, per me era come un fratello piccolo».
«Se arrivava sorridendo, era la giornata giusta e in campo avrebbe fatto strage. Se arrivava serio, con il muso, allora bisognava tirargli fuori il rospo. Allora me lo prendevo in disparte. “Cossa gatu, Ivan?”. “Niente, niente, tutto ben”. “Ma dai Ivan, a mi vuto contàrmea?”. Così Ivan si apriva, parlava, si liberava dei suoi pensieri. E allora era pronto a divertirsi in campo, e quindi ad essere il migliore come sempre».
“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby
Twitter: @elvislucchese