Quantcast
Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
Viewing all 150 articles
Browse latest View live

«Perché il futuro del rugby italiano va affidato ai club e non alle Accademie»

$
0
0

Chi farà crescere gli azzurri di domani? Secondo la Federugby la risposta è nel sistema di formazione centralizzato, sul quale di conseguenza è stato compiuto un cospicuo investimento di risorse umane e materiali. Un progetto di cui ha parlato in questo blog il trevigiano “Titta” Casagrande, responsabile Fir della didattica. Ma nel movimento continua ad essere vivace il dibattito su Centri di Formazione e Accademie e sulla loro effettiva efficacia.

Secondo Marzio Innocenti, ex capitano azzurro e presidente del Comitato Veneto, la strada imboccata dalla Federazione non è quella che conduce verso gli standard internazionali nei quali il rugby italiano è oggi chiamato a competere. E il sistema CdF-Accademie risulta inadeguato nella regione leader della nostra palla ovale.

«L’idea di fondo è che la Fir sia l’unica titolata a far crescere i giovani, riducendo i club a semplici reclutatori», spiega, «è una visione che trovo inaccettabile. In primo luogo perché rientra in un chiaro disegno volto ad esautorare le società delle loro prerogative e delle loro ambizioni di crescita, mentre sono convinto che le società debbano essere al centro di ogni progettazione federale. In secondo luogo, perché si tratta di un modo per non affrontare il vero nodo di tutto il nostro rugby, che è la mancanza di allenatori qualificati».

TdR. Come si risolve questo problema, a suo parere?

«Per ottenere risultati effettivi e duraturi, la Fir dovrebbe formare non tanto i giocatori ma i tecnici. Si tratta di quel “formare i formatori” che in realtà non è mai stato fatto seriamente: una colpa del nostro rugby. Chiaramente un lavoro lungo e difficile, ma che è indispensabile intraprendere. Il movimento avrebbe bisogno ora di cento allenatori competenti distribuiti fra i club, dopo essere stati formati dalla Federazione attraverso i migliori tecnici stranieri, attraverso “maestri” del gioco. I ragazzi crescerebbero nelle società senza gli scompensi ai quali assistiamo, mentre ha senso un’Accademia a livello under 20 per riunire i migliori a conclusione del percorso nelle squadre giovanili».

TdR. Gran parte dei migliori allenatori italiani, in ogni caso, sono attualmente alle dipendenze della Fir.

«Alla luce di quanto vedo, i tecnici che lavorano nei club ed i tecnici federali che si occupano di Centri di Formazione e Accademie sono allo stesso livello».

TdR. Torniamo alle società. Il tessuto dei club italiani non è certo al livello di quello francese o inglese. Esiste anzitutto un problema di budget, aggravatosi con la crisi.

«Al movimento le risorse non mancano. Il sistema delle Accademie assorbe 5,4 milioni a stagione, che la Fir potrebbe utilizzare per sostenere le società nel lavoro di reclutamento e formazione, per farle crescere. Non parlo di finanziamenti a pioggia, ma di contributi mirati ai settori giovanili e vincolati da un rigoroso controllo da parte dell’ente erogatore».

TdR. L’obiezione di chi sostiene le Accademie è che i club italiani non siano strutturati al punto da poter formare atleti secondo quanto richiesto dall’attuale rugby professionistico. Nelle Accademie i ragazzi sono seguiti a tempo pieno, quindi lavorerebbero di più e meglio.

«Posso citare numerose società che in Veneto svolgono un’ottima attività con i giovani: Villorba, Tarvisium, Petrarca, Vicenza, Cus Verona, Valpolicella, Mirano, Bassano, VeneziaMestre, Valsugana, Belluno, San Donà, Mogliano. Sono club che hanno tecnici all’altezza, strutture che supportano la crescita degli atleti, che non ultimo hanno buone capacità di reclutare sul territorio, visto che anche i numeri sono importanti per poter svolgere un lavoro di qualità. Invece di privare le società dei migliori giocatori, la Fir dovrebbe sostenere le società affinché i loro ragazzi lavorino di più e meglio. E sottolineo: tutti i loro ragazzi. Perché l’esito di questa selezione precoce è di levare stimoli a coloro che non sono stati prescelti per le Accademie».

TdR. Ma i giocatori rimangono del club e vi fanno ritorno nel fine settimana.

«Non sempre i giocatori rimangono del club. Andate a chiederlo al Vicenza, che ha perso tre suoi giocatori perché, frequentando l’Accademia a Rovigo, hanno deciso di tesserarsi per una squadra dei dintorni. In ogni caso, quando rientrano in società questi ragazzi hanno aspettative particolari. Si creano degli evidenti scompensi. Ripeto, trovo assolutamente deleteria questa divisione fra “eletti” e “scartati”. E sono uno di quelli che crede ancora, fermamente, nel senso di appartenenza. Fermo restando che ad una decina di anni dalla sua istituzione, l’Accademia non ha ancora prodotto un vero fuoriclasse».

TdR. Lei fa riferimento alle società del Veneto, dove tuttavia il rugby ha una dimensione diversa rispetto al resto d’Italia.

«Ho da sempre sostenuto che le Accademie possano svolgere una funzione importante nelle regioni in cui le società sono più piccole e meno numerose. In questo caso riunire i migliori giocatori per farli allenare insieme ha un significato. In Veneto, invece, il sistema dei Centri di Formazione e delle Accademie finora ha portato solamente problemi. E non possiamo certo permetterci di disperdere atleti. Da qui il lavoro che stiamo svolgendo con le selezioni del Comitato per coinvolgere i ragazzi esclusi dal percorso delle Accademie, per ridare loro le giuste motivazioni».

TdR. Le sue opinioni si confermano in netta opposizione rispetto alla linea della Fir nazionale. Ci sarà una candidatura alternativa alle prossime elezioni, mentre il presidente Alfredo Gavazzi ha già annunciato che correrà per il rinnovo del mandato?

«Sì, una candidatura alternativa ci sarà senz’altro. Il candidato presidente verrà scelto a tempo debito ed a farlo sarà quel gruppo di dirigenti che sta ora prendendo forma. Il nome non è così rilevante: l’istanza che portiamo avanti non riguarda le persone, ma le idee per il rugby che vogliamo».

 

“La terra del rugby” su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese


Jayden Hayward e Treviso, quando il kiwi è di qualità. «Cresceremo ancora»

$
0
0

Di trequarti neozelandesi in maglia biancoverde il pubblico di Monigo ne ha potuti apprezzare almeno un paio di eccelsi: John Kirwan e Craig Green. Vent’anni dopo “JK” e “Toni” (intanto ammogliati e divenuti cittadini della Marca), c’è un altro kiwi che quando corre palla in mano trasmette elettricità ai tifosi di Treviso. Jayden Hayward è già un uomo-chiave nel Benetton di Umberto Casellato ed è attorno all’estremo, capace sempre di creare incertezza, di porre domande ai difensori avversari, che l’allenatore ha costruito molti dei suoi schemi offensivi.

Non è un caso che il neozelandese sia anche il giocatore finora maggiormente impiegato della rosa biancoverde, 15 partite fra Pro12 e Champions Cup, mai sostituito, 67 punti al piede con una media  (17 su 24).

«Non è possibile fare paragoni con Kirwan o Green, il rugby è cambiato troppo in questi anni», dice Casellato, che dei due All Blacks fu compagno di squadra, «di sicuro Jayden è un trequarti di grande qualità ed è fondamentale in una squadra in costruzione come la nostra. La sua presenza dà serenità a tutto il triangolo profondo, è uno di quei leader che, facendo la scelta giusta, sanno gestire i momenti più difficili. Come tutti i giocatori neozelandesi ha skills che in Italia ci sogniamo. Sa fare bene tutto: la presa al volo, il passaggio, il calcio profondo a spirale, il calcetto chip, il grubber teso rasoterra… E aggiungerei il senso della posizione».

Nel mazzo della dozzina di stranieri pescati quest’estate dal Benetton, certo Hayward figura come il jolly, la scelta più riuscita. C’era un cv che parlava chiaro, in ogni caso: sei stagioni di Super Rugby alle spalle, le ultime due delle quali da assoluto protagonista con gli australiani di Western Force. Ma Hayward, per fortuna dei tifosi di Monigo, ha scelto il Vecchio Continente e il Pro12.

«Ho ventisette anni, io e mia moglie Ana abbiamo deciso che era il momento giusto per fare un nuova esperienza di vita overseas, in Europa», racconta, «al di là di un buon contratto, Treviso ci offriva la possibilità di conoscere l’Italia e la sua cultura, di imparare una lingua, di confrontarci con un paese molto diverso dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. C’erano un paio di proposte da club francesi, ma sono felice di avere scelto il Benetton. A Treviso si sta bene, è una città a misura d’uomo. I tifosi sono caldi, appassionati, l’ambiente della squadra accogliente e umile: non ci sono egocentrismi, si bada al sodo, cioè a lavorare con impegno e serietà in allenamento».

Passo indietro. Hayward nasce ad Hawera, 4.000 abitanti, sulla costa orientale dell’isola del nord. Figli famosi della cittadina: il golfista maori Michael Campbell, l’All Black Conrad Smith, l’ex allenatore degli All Blacks John Mitchell. Come ogni ragazzo neozelandese Jayden viene su tra giochi all’aria aperta e sport i più svariati, poi giunto alla maggiore età prende la strada del rugby con la maglia della Union più vicina a casa, Taranaki.

«Da bambino ho giocato molto a tennis, ma anche a basket, a calcio, a ping pong. Rugby sì ma league: uno dei miei più cari amici era Isaac Luke, che ora gioca con i Rabbitohs a Sydney e che ha vinto la Coppa del Mondo con la Nuova Zelanda. Il rugby a XV è arrivato più tardi, quando avevo dieci anni. Taranaki è stato il mio primo club a livello seniores, sento un legame speciale. Prima di dedicarmi allo sport i miei mi hanno però imposto di concludere il percorso scolastico, tirocinio incluso, visto anche che non c’era la prospettiva dell’università. Così ho in tasca un diploma da elettricista, che di certo tornerà utile una volta conclusa la mia carriera. Con la maglia di Taranaki ho giocato 80 partite. Il ricordo speciale è quello del 2011, quando riuscimmo a conquistare il Ranfurly Shield (il prestigioso trofeo challenge in palio fra le provincie neozelandesi, ndr). Era una vittoria che mancava dal 1996. Taranaki è una Union piccola, non abituata ai successi come Auckland e Canterbury. Vincemmo a Invercagill, al nostro ritorno dal match siamo stati accolti da eroi, con tanto di sfilata nel centro di New Plymouth».

Nel 2009 il grande salto nel Super Rugby con un ingaggio negli Highlanders. «A Dunedin è cominciata una nuova vita. La mia prima esperienza lontano da casa e da una famiglia che si prende cura di te. Vivevamo in un appartamento io, Israel Dagg e George Naoupu, che ora gioca nel Connacht. George, di qualche anno più vecchio di noi, si occupava di fare le spese e di cucinare. Io e Izzy lavavamo i piatti. Tutto difficile all’inizio, anche perché fra il gioco a livello di provincie e il Super Rugby la differenza è notevole. Qualsiasi avversario incontri, ti trovi di fronte degli All Blacks o degli Wallabies o degli Springboks… In ogni caso, anche a forza di lavare piatti, sono diventato adulto».

Fra la fatica dell’ambientamento e qualche infortunio, Hayward fatica inizialmente ad affermarsi. Passa dagli Highlanders agli Hurricanes, ma è con l’approdo alla nuova franchigia australiana Western Force che il neozelandese conosce la consacrazione nel SuperXV, mentre si completa la sua trasformazione da apertura a centro, e infine ad estremo. A Perth comincia anche, quasi per caso, la sua storia di calciatore. Casellato rivela: «Wayne Smith, quando è venuto a Mogliano, mi ha detto che ad un certo punto Hayward era ad un passo dalla convocazione per gli All Blacks. Poi ha infilato due,tre brutte partite ed è stato scartato. Si sa, da quelle parti il treno passa una volta sola».

«Nel Taranaki ho quasi sempre giocato apertura, negli Highlanders e negli Hurricanes invece centro«ma quella di estremo, invece, è la mia posizione preferita: più tempo per le decisioni, più spazio per attaccare, diverse opzioni di gioco. Non avevo mai piazzato regolarmente prima di Western Force. Nel camp per preparare la prima stagione facemmo una competizione nei calci e, con sorpresa anche mia, risultai il migliore. Piazzare non è la mia specialità, come lo è per esempio per il mio amico Mat Berquist. Mi dispiace di avere sbagliato qualche calcio importante con Treviso, ma succede e quello che si deve fare, in questi casi, è di mettersi subito alle spalle l’errore per continuare la partita con la massima concentrazione. Posso ancora migliorare, devo lavorarci».

Pregi e difetti di Hayward, secondo… Jayden Hayward. «Mi manca qualche chilo, se si tratta di entrare in una ruck non conto molto contro degli avanti molto più pesanti di me. Credo che una delle cose che so fare meglio sia “leggere” la situazione in campo. Pregi quindi la visione di gioco. La velocità? Beh, non particolarmente. Ce ne sono diversi di più veloci di me, nel Benetton». In verità solo tre, cronometro alla mano: Angelo Esposito, il più veloce in assoluto, poi Ludo Nitoglia e Henry Seniloli, mentre Hayward si gioca il quarto posto alla pari con Ruggero Trevisan.

Il compito oggi è di dare l’esempio in un reparto dei trequarti Benetton che è ricco di talento e di esuberanza atletica, ma nel quale manca ancora l’esperienza (leggi decision-making). «E’ stato difficile, all’inizio, ma non mi sono mai scoraggiato. Avevo vissuto la stessa esperienza con Western Force. Quando sono arrivato lì c’era un capo-allenatore nuovo, Foley, e una squadra rinomatissima  nella prima stagione abbiamo vinto solo 4 partite. Per costruire una squadra servono anni. Abbiamo visto qual è la differenza con Northampton, ma appunto loro sono un club che ha lavorato da almeno cinque anni per giungere al livello attuale. Sconfitte 67-0 non le digerisci facilmente, ma Northampton deve essere considerato un benchmark per tutto il rugby europeo.

«Spero che i tifosi capiscano che stiamo lavorando duro e che stiamo lavorando bene. Fra giocatori abbiamo bisogno di conoscerci meglio, l’intesa è già cresciuta rispetto all’inizio di stagione e credo si vedano i progressi nelle ultime partite. Il Benetton crescerà ancora molto, ne sono sicuro».

Ma i tifosi temono anche che il neozelandese finisca nel mirino di qualche grande club europeo… «Ho un contratto per due stagioni e ad un trasferimento, nel caso, ci penserò solo l’anno prossimo. Ma sto davvero bene qui a Treviso, mi piacerebbe vedere crescere la squadra ed ottenere quelle soddisfazioni che nel tempo sono arrivate con Western Force. La prospettiva della Nazionale azzurra dopo i tre anni di residenza? Giocare rugby a livello internazionale è il sogno di tutti, sarebbe per me un onore vestire un giorno la maglia dell’Italia».

 

(Foto benettonrugby.it)

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

 

Quindici anni di Sei Nazioni, un amarcord azzurro

$
0
0

Quindici anni di Sei Nazioni non sono neppure pochi. Nel 2000 il rugby era ancora clandestino nei media nazionali, come ogni cosiddetto sport minore, e agli occhi del grande pubblico i rugbisti erano ancora solo dei buzziconi maneschi e un po’ campagnoli.

Molto è cambiato da allora. Le maglie non sono più di cotone. Arms Park e Lansdowne Road, stadi leggendari e antichi, sono stati sostituiti da moderni geometrici impianti con parti retrattili, come la base lunare Alpha di Spazio 1999.

La Nazionale, pur continuando a perdere, è oggi capace di attrarre all’Olimpico 60mila tifosi. Sono passati due presidenti-padroni e cinque allenatori (in ordine di merito, giudizio personalissimo: Berbizier, Brunel, Kirwan, Mallett, Johnstone).

Hanno vestito la maglia azzurra 145 giocatori, fra i quali oriundi di otto paesi. Nigel Owens e Gareth Thomas hanno fatto outing. Il nostro gioco ha insegnato agli italiani qualcosa della cultura sportiva anglosassone.

E quella trattoria alla buona consigliata dagli amici romani, diventata anno dopo anno sempre più commerciale, ormai è solo una autentica tourist trap da evitare.

Quindici anni di piacevolissimi avantindrè dal nordest al sole di Roma, più qualche volta anche nelle altre cinque capitali del rugby europeo. E pensare che al momento dell’ammissione dell’Italia si condusse una assurda battaglia politica – comunque persa – per portare il Sei Nazioni in Veneto… Ci sono ricordi che riaffiorano: mete e vittorie, volti e sensazioni, risate. Eccoli, in ordine sparso e senza fare una classifica (ma l’omino dovrebbe spiegare).

 

Flaminio 5 febbraio 2000, dove tutto cominciò. Era un’Italia in ricostruzione dopo i fasti dell’era Coste. Il successo nell’esordio assoluto nel torneo, contro la Scozia campione dell’ultimo Cinque Nazioni, fu un evento miracoloso spiegabile solo con l’entusiasmo agonistico che accompagnò gli azzurri in una giornata storica. E con la classe che allora non ci faceva difetto: i Dominguez, i Troncon, i Giovanelli ce li invidiavano in molti. A cronometro quasi scaduto la meta vincente di Ciccio De Carli ci fece l’effetto di una sbornia.

 

Il cartone di Troncon a Stringer. Contro l’Irlanda nel primo match del 2001. Per tutta la partita l’irlandese – splendido mediano di mischia ma, si sa, un provocatore – tormenta il nostro Tronky. Quando la gara sta per finire Stringer lo trattiene pure per la maglia. Troncon non ci vede più (mettiamoci pure la frustrazione per la superiorità ospite) e platealmente mette ko l’avversario. Un errore, naturalmente. Arriva anche il cartellino rosso. Ma quello che abbiamo pensato tutti è: «quanno ce vo, ce vo».

 

La sgroppata di Mauro Bergamasco a Murrayfield. Sempre 2001, ma in trasferta nel tempio di Edimburgo. Senza parole, il video dice tutto. Tu chiamale, se vuoi, emozioni: c’è pure il commento con la voce da brividi di Bill McLaren.

 

Mauro Bergamasco mediano di mischia a Twickenham. L’Italia apre il torneo 2009 facendo visita all’Inghilterra e Nick Mallett escogita di schierare il flanker con il numero 9. A Twickenham veniamo ridicolizzati senza salvare neanche la faccia. Ad ogni errore di Bergamasco i colleghi inglesi in tribuna stampa si girano verso di noi con una risatina, fra l’interrogativo e lo strafottente. Una figuraccia che al rugby italiano Mallett avrebbe potuto anche risparmiare.

 

Mozzarella DOP per i gallesi. Alla vigilia dell’edizione 2011 si rompono prima Gori e poi Canavosio. Nick Mallett chiama questa volta dal Benetton un mediano di mischia di ruolo, cioè Fabio Semenzato, per tutti “Mozzarella” fin dalle giovanili nel Paese (il soprannome glielo aveva affibbiato l’allenatore “Orcobobi” Pozzebon, per la carnagione chiara). Esordio durissimo per il trevisano, il quale peraltro non è allora neppure la prima scelta nel club: Inghilterra-Italia 59-13.

Ma Semenzato prende fiducia nel corso del torneo. Gioca la partita della vita quindici giorni dopo a Roma contro il Galles, quando l’avversario diretto è Mike Phillips che gli dà 13 centimetri e 14 chili. Il gallese lo abbatte e lo mette a sedere nel primo tempo, nella ripresa Mozzarella lo punta e lo travolge in sfondamento (video). Carattere, el ceo. Alla fine il riconoscimento di man of the match, alla fine del Sei Nazioni anche la nomination fra i migliori del torneo.

 

Mamma mia, Festuccia! La peggior [biiip] di sempre è quella che combina Carlo Festuccia a Dublino, nel 2004. Touche dentro le 22 difensive per gli azzurri. Il tallonatore aquilano gioca una “furba” ma all’insaputa dei compagni, evidentemente per un’incomprensione nella chiamata. Ovale direttamente nelle mani di Malcolm O’Kelly, e meta (video). Peccato anche perché era una bella Italia, che in un Lansdowne Road sferzato dal vento chiuderà comunque con un onesto 3-19.

 

Mamma mia, Dominici! Sempre 2004. Non c’è molto da divertirsi, allo Stade de France. Anche giocando maluccio i francesi ci superano senza problemi, gli azzurri rimangono addirittura a secco di punti. Però godiamo come ricci al celebre incidente di Christophe Dominici, che fa talmente lo sbruffone da farsi scivolare l’ovale di mano quando è già dentro all’area di meta, al momento di schiacciare. Laporte alla fine non fa sconti: «Inaccettabile. Ha offeso i compagni e tutti i giocatori in campo».

 

Marcato eroe per un giorno. Un drop che si alza in cielo all’ultimo minuto, sul 20-20. I secondi di maggiore suspense di quindici anni di Sei Nazioni azzurro. Il calcio del padovano Andrea Marcato si infila in mezzo ai pali, Nigel Owens alza il braccio, battiamo la Scozia. E’ il 2008 e a Roma l’aria è già primaverile.

Il numero 15 azzurro – all’apertura gioca Masi – è l’eroe del giorno. E finalmente arriva la vendetta di piede sulla Scozia, che con Chris Paterson ci aveva fatto mangiare bocconi amarissimi. (In seguito Mallett lancerà un ambiguo messaggio pubblico, dicendo che Marcato avrebbe dovuto prendere rapidamente dei chili per giocare nella sua Italia.)

 

Il tram numero 2. Nei primi anni del Sei Nazioni, prima di essere sostituito da una vettura più moderna, era il molto vintage tram numero 2 a portarci da Piazza del Popolo al Flaminio. Antiche carrozze arancioni, vuote al capolinea iniziale, che via via si riempivano di signore con la borsa della spesa e di studenti. Infine di gruppi di tifosi con la maglia da rugby.

Quel giorno del cartone di Tronky a Stringer era pieno di allegri irlandesi smanicati. Ad un certo punto un paio di loro inizia ad intonare una malinconica canzone che parla di prati verdi e di scogliere sul mare. Si uniscono altri, e altri ancora. Il tram numero 2 ci porta musicalmente alla partita. Poesia.

 

La meta di testa di “Yuri” Ongaro. Flaminio 2004. La terza vittoria nel torneo – la prima senza Dominguez in campo – arriva contro la Scozia grazie soprattutto alla meta di Fabio Ongaro in avvio di ripresa. Touche a ridosso della linea di meta avversaria, lancio di “Yuri” su Santi Dellapè, disturbato dal saltatore scozzese. Ovale che rotola in area, Ongaro vi si avventa spingendo via Bulloch, si aggiusta la palla come può, anche con la testa. Fortunatamente l’arbitro gallese Whitehouse decide di non consultare il TMO.

 

Il Troncon del 2007. E’ il Sei Nazioni delle due vittorie di fila, quello che fa esplodere il rugby per popolarità e interesse. Uno spartiacque nella storia italiana. Ci aiutano gli scozzesi, che a Murrayfield servono tre palloni ai nostri intercetti nei primi 6 minuti. Ma è il Sei Nazioni di Alessandro Troncon, che ritorna da trascinatore in Nazionale dopo due anni di assenza, quando tutti lo davano ormai per finito. E’ più di un mediano di mischia, perché Tronky oltre a distribuire precisi passaggi a Ramiro Pez gioca ormai come una terza linea aggiunta: placca, carica palla in mano, spinge in maul. Monumentale.

 

Croke Park, storia e passione. I lavori per la costruzione dell’Aviva Stadium (lo vedremo fare da sfondo in “This must be the place”  di Sorrentino) costringono l’Irlanda al Croke Park, cattedrale degli sport gaelici. Vi si respira storia, orgoglio. Il museo, che riporta alle immagini del Bloody Sunday in “Micheal Collins”, è un gioiello. Gli spalti, ripidissimi, danno come una sensazione di vertigine. Partita anonima degli azzurri nel 2010: Irlanda-Italia 29-11. Ma resta l’esperienza speciale di Croke Park.

 

“E i francesi ci rispettano / che le palle ancor gli girano”. Il successo di due anni fa sui Coqs è più cronaca che amarcord. Di fatto una vittoria sicura e pienamente meritata, da squadra matura. Arriva mentre il Benetton di Smith-Munari è a sua volta all’apice della sua maturità di gruppo: per intesa fra singoli, per consapevolezza tattica, per forma fisica. Quattordici biancoverdi calcano l’Olimpico quel giorno. Minto, Zanni, Favaro, Ghiraldini sono tra i migliori, anche se il premio di man of the match va giustamente a Luciano Orquera. E Nigel Owens anche questa volta ci porta fortuna…

 

“La terra del rugby” su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

Casale, la “rugby town” ora sogna il ritorno in A

$
0
0

Casale sul Sile, 12mila abitanti, si trova ad una manciata di chilometri dalla ricca Treviso e dalla proletaria Mestre, là dove «una volta era tutta campagna». Da un punto di vista sportivo questo è però come un pezzo del Midi francese o delle Valleys minerarie del Galles. Perché a Casale i bambini, nella letterina a Babbo Natale, chiedono un pallone ovale e una maglia degli All Blacks, non la divisa della Juve o del Milan.

E nei bar del paese, mentre la Gazzetta viene sfogliata a partire dall’ultima pagina, si intavolano discussioni sulla forma di Castrogiovanni e il talento di Campagnaro, mica su Pogba e Totti. Tanto più se il locale è l’osteria Selser in via Trento e Trieste, dove i Cappelletto hanno accolto e rifocillato i grandi campioni che hanno vestito la maglia biancorossa dei “Caimani” in un glorioso passato, da Ken Carrington – primissimo All Black in Italia – a Wayne Smith, Craig Green e Zinzan Brooke. Qui è sempre stato un feeling speciale, quello con la Nuova Zelanda.

Il presente parla di un club con una vivace attività giovanile e scolastica (oltre 300 tesserati), sostenuto da uno sponsor appassionato come la Dopla della famiglia Levada. E di un sogno che Casale culla almeno da un paio d’anni, il ritorno in serie A. La scorsa primavera i biancorossi persero lo sprint contro Tarvisium e Paese.

Ma oggi solo loro a dominare il girone veneto dei cadetti, anticamera infernale all’ascesa in A: chi la spunta nel raggruppamento quasi sempre ha la meglio sugli avversari del resto d’Italia nei playoff, e una volta promosso è talmente attrezzato da non faticare a confermarsi nella nuova categoria.

Sogno che diventa realtà? Intanto è un dato di fatto che Casale ha 8 punti di vantaggio sulle seconde, avendo vinto 11 delle 12 partite finora disputate. L’unica sconfitta, singolarmente, è arrivata in casa all’”Eugenio” il 7 dicembre, quando i festeggiamenti per l’addio al rugby di Fabio Ongaro hanno evidente distratto un po’ l’ambiente biancorosso dal confronto con il Paese.

La stagione regolare si prospetta in discesa, soprattutto dopo l’ultimo passaggio “in quota” di tre domeniche fa, quando il Dopla ha espugnato Mirano ottenendo anche il vantaggio negli scontri diretti con i rivali per i playoff. «Adesso il distacco in classifica ci permette di guardare al resto della stagione da una posizione decisamente più tranquilla, anche se nel girone veneto, con tutti i suoi derby, non è mai possibile rilassarsi», dice l’allenatore Gianni Zaffalon, «vincere a Mirano era importantissimo, l’abbiamo fatto con grande maturità. Adesso “tifiamo” proprio per il Mirano, perché batta il Paese e ci renda tutto più facile».

Intanto si seguono le sorti del girone lombardo, cioè i possibili avversari nell’accoppiamento dei playoff per la promozione. La realizzazione del sogno passerà da una trasferta dalle parti di Lecco o, più probabilmente, di Parabiago.

Per portare a termine l’opera, servirà tutta l’esperienza a disposizione. E cautamente Casale se ne è procurata in abbondanza: giocatori-chiave come Alessandro Gerini e Alessandro Mucelli (foto) arrivano dalle serie superiori, mentre all’occorrenza può ancora scendere in campo il vice-allenatore Christian Signori, una vita al Benetton e sui campi di tutto il Veneto. Il reparto trainante sono gli avanti, con una testa di mischia che ha spesso dominato gli avversari, il tallonatore Zecchin giunto da San Donà e i due piloni Ruffert e Gambardella (non il Jep di “La Grande Bellezza”, solo Andrea).

«Lavoriamo ad un’idea di rugby semplice ma efficace», spiega Zaffalon, rientrato a Casale l’anno scorso dopo la lunga parentesi sulla panchina del Paese, «per questo abbiamo bisogno di un’apertura in grado di prendere le migliori decisioni e Mucelli sta svolgendo benissimo questo ruolo. La mischia non è certo la più pesante del girone, ma è tecnica e affiatata».

I Caimani hanno abbandonato nel 1994 la serie A, che hanno disputato 12 volte. Ma nei bar di Casale, per scaramanzia, di promozione oggi proprio non si vuole parlare.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

 

Il rugby dei bambini è cosa seria. Un libro di Gastone Tempesta

$
0
0

Mentre il dibattito sullo sviluppo del movimento (soprattutto sulle tanto discusse Accademie) è capace di accalorare gli animi e di dividere, del minirugby in Italia si parla invece sempre troppo poco. Come se nel mondo del vino la preoccupazione fosse nient’altro che l’imbottigliamento o il ripasso in barrique, tralasciando la qualità dell’uva…

Importanti, così, gli stimoli proposti da un libro come “Allenare il minirugby”, in cui il trevigiano Gastone Tempesta fa sintesi della sua esperienza sul campo durata più di vent’anni. Non si tratta di un manuale pratico ne’ tantomeno di un eserciziario, ma di un curato testo di “formazione del formatore” che brilla per ricchezza dei temi trattati e al contempo per chiarezza – diremmo, anglosassone – nell’esposizione.

Tempesta accoglie contributi da altre discipline sportive e, alla luce della sua estrazione professionale, anche dal training aziendale, sottolineando ad esempio l’importanza dell’organizzazione e della programmazione a lungo termine fra i compiti dell’allenatore.

«Cominciai ad occuparmi di minirugby nel 1980, appena uscito dalla giovanile», spiega, «non ero un grande giocatore, mi si prospettava la squadra Riserve o il solito prestito ad un club del circondario. Franco Casellato mi propose invece di allenare. L’ho fatto a Treviso fino al 2003, quando fui costretto a smettere dagli impegni di lavoro. Ho avuto la fortuna di imparare da grandi tecnici, soprattutto francesi, anche se il primo fu Roy Bish. Fino a Teixidor nel Benetton era prassi un incontro settimanale fra gli allenatori di tutte le categorie».

«Ho continuato in questi anni ad interessarmi di minirugby, confrontandomi anche con le realtà di Francia, Inghilterra, Irlanda, dove la mia professione mi conduceva. Dalle molte idee raccolte in questo periodo lontano dal campo, oltre che dalla mia precedente esperienza, nasce il libro, che vuole essere uno strumento a disposizione degli allenatori del minirugby. I quali di strumenti per formarsi ne hanno pochi».

TdR. La formazione dell’allenatore di minirugby, in effetti, è sostanzialmente un learning by doing.

GT. «Come è noto, è sufficiente la frequenza di due pomeriggi di corso per ottenere l’abilitazione Fir. I materiali didattici a disposizione sono scarsissimi. Chi insegna minirugby in Italia lo fa spesso in modo inadeguato. E non mi riferisco tanto agli aspetti tecnici, che non affronto neppure nel libro, quanto agli aspetti pedagogici e organizzativi. Abbiamo bisogno di maggiore preparazione, di aggiornamento, di confrontarci con il minirugby degli altri paesi. Faccio un esempio: in un club irlandese agli allenamenti partecipa un’istruttrice di danza, che insegna ai bambini a fare la ruota. Un contributo importante per la motricità, probabilmente una delle tante idee che potremmo copiare».

TdR. Nelle prima pagine del libro viene citata la Carta dei diritti dei ragazzi allo sport. Fra questi anche il diritto “di non essere un campione”. Siamo ad una delle questioni-chiave del minirugby.

GT. «Sono ancora troppi gli allenatori che preparano la loro squadra con il solo obiettivo di vincere la partita o di fregiarsi di un successo nel Trofeo Topolino. Ovviamente i successi possono essere motivanti per i bambini, ma in sostanza si tratta di una preoccupazione esclusiva degli adulti. Bisogna concentrarsi non sul risultato immediato, ma sul processo: sviluppare le competenze dei bambini, di tutti i bambini. A cosa serve schierare sempre quello più grosso che a dieci anni segna mete a ripetizione ma che poi magari si perderà, quando anche gli altri cresceranno in peso e statura? A cosa serve vincere con l’under 8 se poi non ci saranno neppure i numeri per schierare un under 14 o under 16? Rispetto ai tecnici dei seniores, l’allenatore di minirugby deve avere altre priorità, deve essere un educatore».

TdR. Negli ultimi anni a livello di minirugby si è assistito ad un boom dei praticanti. Questo significa anche un cambiamento di approccio e di aspettative, sia da parte delle società che dei genitori.

GT. «Il reclutamento non è più problematico come un tempo, sono le mamme stesse a portare i bambini per i valori che vedono nel rugby, forse anche un po’ per moda. Ecco che diventare fondamentale migliorare la qualità dell’insegnamento. I club dovrebbero pensare non tanto e non solo a reclutare, ma soprattutto ad educare attraverso allenatori preparati. E’ importante la componente affettiva, perché non dobbiamo perdere nessun bambino. Solo assicurandosi la quantità dei praticanti si potrà, a tempo debito, lavorare sulla qualità. Se inizio la stagione con venti bambini e la finisco con dieci, devo chiedermi se ho commesso un errore, anche se con quei dieci ho vinto il Trofeo Topolino. Ecco, spero che il mio libro serva a fare domande, ad aprire una discussione».

Gastone Tempesta, “Allenare il minirugby”, Edimedia Editore, pagg. 238, euro 18. Il libro verrà presentato sabato 21 febbraio alle ore 17 nella club house dello stadio Monigo.

 

 

“La terra del rugby” su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

Buso dall’azzurro alla Fédérale 2. «Uno su cento ce la fa, meglio un’esperienza all’estero»

$
0
0

Le vie del rugby sono infinite. Sono anche irregolari e imprevedibili, come i rimbalzi di un pallone che per forma e indole non si lascia mai domare facilmente. Un talento di Paese, a rigor di logica, va a maturare a Treviso: e invece Paolo Buso è cresciuto a Calvisano.

Per un ragazzo approdato anche nel giro della Nazionale, dopo molto azzurro a livello giovanile, sarebbe naturale che la maglia di ogni giorno fosse quella di una franchigia italiana di Pro12 o di un buon club europeo. E invece Paolo Buso oggi gioca in Fédérale 2, la quarta serie francese. Paese, Calvisano, Roma, Viadana con gli Aironi, Parma con le Zebre, ora a ventotto anni Grasse, entroterra della Costa Azzurra, la città dei profumi cara ai Rothschild e a Guy de Maupassant e nella quale morì Edith Piaf.

«Quest’estate avevo dei contatti con squadre di Eccellenza quando è arrivata la telefonata del mio amico “Ged”, Gerald Fraser, e la sua offerta per giocare in Fédérale 2», racconta al telefono dalla Francia, «avevo sempre avuto voglia di fare un’esperienza all’estero e arrivavo da una stagione alle Zebre disgraziatissima per gli infortuni. Grasse era l’occasione buona. E oggi non sono affatto pentito della scelta».

Gli allenatori dell’Olympique Grasse sono Fraser e un’altra vecchia conoscenza del campionato italiano, Justin Purll, entrambi ex Calvisano e in seguito rispettivamente anche a L’Aquila e Prato. Per dare sostanza alle ambizioni di promozione hanno portato in Costa Azzurra, oltre a Buso, pure gli avanti romani Saverio Colabianchi ed Emanuele Leonardi, quest’ultimo visto in passato anche nel Petrarca Padova.

Un gruppo di una decina di giocatori – gli stranieri più alcuni studenti – si allena anche alla mattina, ma in sostanza la squadra si prepara con le solite tre sedute serali che sono il menu del sano rugby amateur a qualsiasi latitudine. Anche grazie a “les italiens” il Grasse è ora primo in classifica, in un girone che comprende anche nobili decadute come Vienne e Nice. E per Paolo è come un nuovo inizio.

«Le quattro stagioni di Celtic sono state tormentate: tre volte i crociati e una terribile pubalgia. L’anno scorso nella prima partita dopo l’operazione al ginocchio, a novembre, mi sono di nuovo infortunato agli stessi crociati. In una stagione ho potuto disputare appena 58 minuti… Adesso sto bene e a Grasse finalmente sto giocando con continuità. Questo era tutto ciò di cui avevo bisogno. Tanto più che dopo anni ad estremo sono tornato al ruolo nel quale ero cresciuto, cioè apertura. Essere affiancato da Fraser mi aiuta e mi dà serenità».

«Il livello del gioco in Fédérale 2? Un’altra cosa rispetto al Pro12 al quale ero abituato, naturalmente. In fin dei conti ancora nel 2013 ero stato inserito da Brunel nel gruppo per il Sei Nazioni… Ma non siamo lontani dall’Eccellenza, direi che Grasse potrebbe stare fra le migliori della serie A italiana».

«C’è molta aggressività, ogni domenica per gli avanti sono delle belle battaglie. Nel nostro reparto arretrato ci sono ragazzi di qualità, abbiamo anche alcuni giovani provenienti dagli Espoirs del Toulon. Ci divertiamo e facciamo un gioco bello da vedere. Anche se non siamo nel sudovest, anche in questa parte della Francia il rugby è molto radicato. L’ambiente è competente, il nostro presidente Eric Berdeu ha giocato a lungo ai massimi livelli. C’è sempre molto da imparare».

Si tratta allo stesso tempo di un’esperienza di vita, una sorta di Erasmus ovale che tenta un numero sempre maggiore di rugbisti italiani. Rimanendo ad un paio di esempi veneti, Giulio Cenedese sta giocando in Galles, al Neath, mentre Marco Pelizzari è a Chalon in Fédérale 1. Il rugby italiano è un sistema debole e incerto, eppure capace di alimentare illusioni. Di fronte alle storture ereditate dal già dilettantesco professionismo degli anni Duemila, quello del Super Ten, c’è chi invece preferisce un contratto modesto ma sicuro all’estero.

«E’ un’esperienza che ti resta per sempre e che consiglierei a tutti. Hai la possibilità di imparare una lingua, di venire a contatto con un mondo diverso, di maturare da un punto di vista personale. Giocare all’estero non può che essere positivo. Quanto alla serietà dell’approccio, purtroppo sappiamo tutti come è la realtà in Italia: io avanzo ancora tre mesi di stipendio dagli Aironi, che probabilmente non otterrò mai… In Francia dalla Fédérale 1 i contratti sono professionistici e ciò significa contributi e tutele, perfino una eventuale indennità di disoccupazione. Situazioni di società in crisi economica esistono, ma il controllo è severissimo».

A sette anni di distanza dal primo e unico match in azzurro (Cardiff nel Sei Nazioni 2008), lo sguardo di Paolo è ormai più disincantato.

«Voglio riprendere l’università. Ero iscritto a Scienze Motorie, poi ho mollato per gli impegni del rugby, ma soprattutto per pigrizia mia. E’ giusto costruirsi un’alternativa, dovrebbero farlo tutti i giocatori. Penso ai ragazzi che ora stanno nelle Accademie e hanno grandi aspettative dal rugby. Ci sono cascato anch’io: all’inizio della Celtic pensavo che sarei stato un professionista di quel livello per un’intera carriera. Invece ci vogliono talento, costanza e anche fortuna perché ad esempio c’è sempre il rischio degli infortuni, che fanno parte del rugby. Solo uno su cento ce la fa».

Rovigo e il primo titolo del 1939. La rivincita della provincia era già cominciata

$
0
0

Rugby, una città, ha dato il nome ad uno sport; rugby, uno sport, ha dato un nome a Rovigo. Il rugby mi ha coinvolto fin da quando ero bambino, senza che ne avessi grande merito, distogliendomi da altri sport. Non l’ho cercato; è venuto a scovarmi. E’ questo il grande, impagabile pregio del rugby a Rovigo: se non vai da lui è lui che viene a cercarti e a sollecitarci, perché è l’anima di una città. (Luciano Ravagnani, Una città in mischia)

Solo quattro anni trascorsero a Rovigo dalla rocambolesca apparizione di una palla ovale, nella primavera del 1935, al primo significativo successo conquistato sul campo, il titolo nel campionato italiano Gil ottenuto a Forlì il 23 aprile 1939. Appena quattro anni nei quali una disciplina ancora misconosciuta in Italia mise radici in Polesine in modo sorprendente e assolutamente inedito. Una predestinazione naturale di Rovigo al rugby, verrebbe quasi da dire cogliendo una facile suggestione.

«Per la squadra si ormai un tifo “spinto”», scriveva la Gazzetta dello Sport nelle cronache delle finali forlivesi, mentre a Padova e a Treviso, dove si giocava già dal 1927 e dal 1932, la nuova disciplina stentava ancora a trovare una qualche collocazione al di fuori della ristretta cerchia di universitari legati ai Guf.

E nel confronto con formazioni composte da ragazzotti della borghesia agiata, poco abituati ne’ disposti al sacrificio, ecco che il rugby plebeo di Rovigo si rivelava subito vincente. Un’anteprima dei trionfi degli anni Cinquanta alla quale faceva già da sfondo un sentimento di riscatto sociale, in un territorio fra i più poveri e culturalmente marginali dell’intero paese.

«La vittoria degli atleti rodigini è stata in un certo senso anche la rivincita della provincia sulla metropoli e l’affermazione che il rugby conta forze efficienti anche nei centri minori», sottolineava l’inviato del quotidiano Il Polesine Fascista all’indomani della vittoria dei Bersaglieri rossoblù (soprannome e colori sociali erano quelli fin dall’anteguerra).

Nata nel ’35 da un’idea di Davide “Dino” Lanzoni, studente di medicina a Padova, la squadra ricade presto sotto l’egida della locale Gioventù Italiana del Littorio, ente che organizza in chiave premilitare e propagandistica il tempo libero delle nuove generazioni fasciste. Al primo campionato nazionale delle Gil al quale partecipa, nel ’38, il Rovigo raggiunge le semifinali. Le squadre in lizza per questa sorta di torneo giovanile sono 53, ad allenare i rossoblù è un tecnico distaccato dalla Fir, … Baccarin. Nella final four di Torino la corsa dei rodigini si ferma contro i padroni di casa, poi sconfitti in finale dal Milano.

1939. Pur orfano dell’allenatore Baccarin, passato a Vicenza, Rovigo nel primo girone estromette nell’ordine Venezia, Udine e Padova. Guadagna così l’accesso alle finali in programma al “Tullo Morgagni” di Forlì assieme ad un’altra realtà emergente al debutto nella fase decisiva del torneo, L’Aquila. Abruzzesi sconfitti 6-3 da Milano nella prima semifinale del venerdì. Nel secondo match, che la Gazzetta definisce «contesa elettrizzante condotta dalle due squadre con perfetta cavalleria», un drop di Vignaga, un piazzato di “Maci” Battaglini e una meta di Vallin trasformata ancora da Battaglini permettevano ai rossoblù di vendicare sul Torino (12-11) la sconfitta dell’anno precedente (12-11).

Dopo un giorno di riposo, domenica le finali. Torino batte L’Aquila 15-0 per il terzo posto. A sorpresa Rovigo si impone sul Milano 14-0 grazie a una meta di Destro, a un drop di Schiesari (i giornali riportano Tomasin, il rodigino gioca sotto falso nome), a un piazzato e un drop di Battaglini. E’ campione.

«Gli sportivi rodigini scesi a Forlì in numero abbastanza rilevante (essi erano un centinaio, provvisti di megafoni e perfino di una… campana che hanno agitato a tutto spiano per gli ottanta minuti di gioco) hanno provato una soddisfazione quale mai avevano assaporato» (Il Polesine Fascista, 24 aprile 1939).

Così la Gazzetta dello Sport. «La squadra è un magnifico complesso di efficienza atletica, di ardore battagliero, di ardente volontà collettiva. Al Milano, leggermente superiore in linea tecnica, Rovigo ha opposto il cuore indomito dei suoi ragazzi e la superiorità della prestanza fisica con un gioco maschio e combattivo. Un atleta, sopra tutti, ha riassunto la capacità di manovra e di realizzazione della squadra: Battaglini».

Mario Battaglini, dunque. A Rovigo “Maci”, allora solo ventenne, è già popolare per le sue imprese sportive. Nel piccolo mondo del rugby italiano si è già avviato il passaparola a proposito del suo innato talento. Lo ingaggiano proprio quell’estate i campioni tricolori dell’Amatori Milano, i quali scendono anche a Rovigo per misurare la forza degli emergenti rossoblù dopo la vittoria ai campionati Gil. Il 7 maggio di fronte a 3mila spettatori termina 32-9, naturalmente per i lombardi.

L’Amatori ha alle spalle l’imprenditore tessile Furio Cicogna (nel dopoguerra anche presidente di Confindustria e dell’Università Bocconi, oltre che della Fir nei periodi 1941-1943 e 1946-1948) ed è l’unica realtà italiana in grado di proporre una dimensione semi-professionistica. Battaglini sfrutta l’occasione per essere protagonista nel 1940 del nono scudetto dei milanesi, su dodici edizioni del campionato italiano. L’Amatori è anche il viatico alla Nazionale, per la quale le porte sono chiuse ai giocatori delle piccole squadre. “Maci” gioca in maglia azzurra i due incontri che l’Italia disputa nel 1940, contro Romania e Germania.

Ma la guerra incombe e il geniere Battaglini il 9 aprile 1941 sarà inviato in Jugoslavia. Di rugby si tornerà a parlare seriamente solo dopo la conclusione delle ostilità.
Post scriptum a proposito del foto di Mario Battaglini in maglia Amatori. Forse qualcuno avrà già visto altrove questa immagine: sono d’altronde i tempi del copia-incolla (e-non-citare-la-fonte). La fotografia però è di proprietà di Umberto Cavazzini, un tifosissimo del Rovigo (uno dei tanti) e gestore di un bar parecchio noto in città, il Miani in via Corridoni. Un giorno di qualche anno fa Umberto va al mercatino di Brugine e compra un libro di seconda mano, “L’alchimista” di Paulo Coelho. Dentro, come segnalibro, questa foto di Battaglini, autografata sul retro, che neppure la famiglia possedeva. Chiamale coincidenze…

“La terra del rugby” su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

Con Visentin e Bacchin ancora azzurro dalla “cantera” veneta, l’orgoglio di S.Donà e Paese

$
0
0

Il Veneto del rugby si arricchisce di un altro po’ di azzurro. Gli ultimi ad essere chiamati a rappresentare l’Italia sono l’ala Michele Visentin e il centro Enrico Bacchin, rispettivamente 23 e 22 anni, i quali sabato scenderanno a Murrayfield da titolari per sfidare la Scozia nel Sei Nazioni.

Degli ultimi sedici esordienti in Nazionale, ne sono stati formati in Veneto 8… e mezzo, poiché Tommaso Allan è nato a Vicenza ma cresciuto prevalentemente all’estero dopo un’esperienza da giovanissimo nel Petrarca Padova. E sul trampolino di lancio c’è anche Tommaso Boni, convocato da Brunel pur essendo ancora in Eccellenza, a Mogliano.

Fermo restando che continuiamo a reclutare massicciamente anche oriundi (5 fra i “deb” recenti: Cedaro, Chistolini, Haimona, Vunisa e Biagi, anche se quest’ultimo in Italia dall’under 19), è innegabile che il contributo della “cantera” veneta rimanga sempre decisivo per le sorti del rugby azzurro. Merito del radicamento nel territorio ma soprattutto dei club che questa tradizione aggiornano e mantengono viva nella quotidianità, con il loro lavoro in gran parte a base di appassionato volontariato.

Una maglia della Nazionale da appendere in “casetta” è, come a qualsiasi latitudine, motivo di grande orgoglio per il club formatore. «Michele lo sentiamo sempre come uno dei nostri, quando torna a casa dalla famiglia non manca mai di fare un salto allo stadio per salutare amici ed ex-compagni», spiega il presidente del Paese, Paolo Pavin, a proposito di Visentin che attualmente è in forza alle Zebre, «siamo felicissimi per il suo esordio in azzurro, ed anche un po’ sorpresi visto che in Pro12 non aveva finora giocato molto».

Mentre il fratello maggiore del neo-azzurro, Nicola, ha giocato nelle fila dei Canguri fino a due stagioni fa, “Mitch” Visentin è cresciuto nelle giovanili rossoblù passando quindi a 17 anni nel Benetton. Dopo l’esperienza nell’Accademia e nel Calvisano, è approdato in questa stagione alla franchigia federale di stanza a Parma (5 partite fra Pro12 e Challenge Cup).

Sono cinque i ragazzi approdati alla Nazionale maggiore che hanno avuto l’iniziazione a Paese, un risultato non da poco per un club che opera in una cittadina di appena 20.000 abitanti. «Come nel caso di Mazzariol, Pozzebon, Semenzato e Buso, vedere uno dei nostri ragazzi in azzurro è una bella soddisfazione, ripaga dell’impegno tutto l’ambiente di cui fanno parte anche Gianni ed Enrica, i genitori di Michele», sottolinea Pavin, «siamo una piccola società ma portiamo il nostro mattoncino per il rugby italiano».

Giornata di festa, ieri, anche per San Donà, che con Enrico Bacchin allunga la serie degli azzurri razza Piave inaugurata dai gemelli Fedrigo e proseguita con atleti del calibro di Giancarlo Pivetta e “Ciro” Sgorlon. Il centro è arrivato in questa stagione nel Benetton Treviso dopo una parentesi a Mogliano. Rugby affare di famiglia anche in questo caso: il fratello di Enrico, Giorgio, gioca flanker nella prima squadra biancazzurra in Eccellenza. Nella foto in alto di Ottavia Da Re, Bacchin in maglia Mogliano viene placcato dall’ex compagno Stefano Secco.

I due veneti saranno gli azzurri numero 643 e 644.

 

Gli esordienti in Nazionale delle ultime stagioni. La statistica è dell’uomo dei numeri del rugby italiano, Walter Pigatto (grazie!).

Tour Sud Africa 2013, vs. Scozia: Leonardo Sarto, Alberto Chillon e Leandro Cedaro.

Test match 2013. Vs. Australia: Tommaso Allan. Vs. Fiji: Michele Campagnaro.

Sei Nazioni 2014. Vs. Galles: Angelo Esposito. Vs. Inghilterra: George Biagi.

Tour Pacifico 2014. Vs. Fiji: Andrea De Marchi e Guglielmo Palazzani. Vs. Samoa: Dario Chistolini.

Test match 2014. Vs. Samoa: Kelly Haimona. Vs. Sud Africa: Samuela Vunisa.

Sei Nazioni 2015. Vs. Irlanda: Marco Barbini. Vs. Inghilterra: Giulio Bisegni.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

 


Benetton, la scommessa Bautista Guemes. Rientrano De Marchi e Barbieri?

$
0
0

Giunto a Treviso giovedì scorso, l’argentino Bautista Guemes è la novità biancoverde della seconda parte della stagione. Si tratta di una scommessa: oltre che joker medical per sostituire l’infortunato Campagnaro, lo staff del Benetton spera che l’apertura proveniente dal Club Atletico Buenos Aires possa essere un jolly per chiudere al meglio l’annata di Pro12.

Guemes potrebbe peraltro essere tesserato da italiano, essendo in procinto di ottenere il passaporto del nostro paese. «Come molti argentini ho un antenato di qui, il mio nonno materno era siciliano», spiega Guemes, 24 anni, a margine di un allenamento in Ghirada, «stiamo completando la trafila per ottenere i documenti italiani. Questa intanto è la mia prima esperienza di rugby all’estero. Ho giocato nei Pumitas anni fa, senza però riuscire a fare i Mondiali juniores, e sempre stabilmente nelle selezioni dell’URBA (l’area di Buenos Aires, ndr). Con il Cuba abbiamo avuto la soddisfazione di vincere il Nacional de Club l’anno scorso, una grande gioia per me».

Nacional de Clubes in cui Guemes è risultato il secondo marcatore in assoluto e il migliore della finale, con un’ottima percentuale dalla piazzola. Porteño del centralissimo quartiere della Recoleta, dimensioni fisiche del tutto nella norma (più un Paddy Jackson che un Ruan Pienaar, per intenderci), giunge a Treviso su indicazione di Manuel Ferrari. Le sue referenze parlano di un’apertura di buone capacità tecniche, sia con le mani che con i piedi.

L’intenzione dello staff biancoverde è di inserire Guemes quanto prima nella lista-gara, forse già sabato contro l’Edinburgh se saranno completate in tempo le formalità burocratiche per il tesseramento. Il Benetton ha gli uomini contati, in particolare dopo che Bacchin, Barbini, Ragusi e Fuser sono stati confermati nel gruppo azzurro con Favaro, Minto, Gori e Morisi, mentre la contemporaneità con l’Eccellenza esclude il ricorso ai permit-player.

Infortunati Sgarbi e Trevisan, Umberto Casellato ha scelte praticamente obbligate per il reparto arretrato. Ma a Treviso l’impegno è anche per un progetto di lungo termine. In Ghirada sono in corso i lavori per la realizzazione di un campo in sintetico, che renderà un prezioso servizio soprattutto nei mesi invernali.

E si lavora per allestire la rosa della stagione 2015/2016, condizionata in modo decisivo dall’appuntamento dei Mondiali (mettendoci anche il Sei Nazioni, gli azzurri non saranno a disposizione del club che per dieci-dodici partite).

Il pubblico di Monigo potrebbe rivedere in maglia biancoverde due giocatori già apprezzata negli anni scorsi, il pilone sandonatese Alberto De Marchi e il terza linea italo-canadese Bob Barbieri. Entrambi hanno faticato ad ambientarsi ai ritmi della Premiership inglese. Barbieri si sarebbe offerto anche alle Zebre.

 

Belluno e “la bala sloza”. Il sapore speciale del rugby di montagna

$
0
0

Ai piedi delle montagne, lontano dal quadrilatero ad alta concentrazione ovale fra Rovigo, Padova, Treviso e San Donà, quello di Belluno è un rugby di periferia e di confine. Vissuto con lo slancio un po’ speciale di chi predica in terra di infedeli (qui dominano calcio e pallavolo) e rispettato profondamente dai giocatori di pianura (chi non ha qualche ricordo legato alla temuta trasferta dolomitica?).

E non si tratta di una recente novità: a Belluno il rugby esiste ufficialmente dal 1957, ma già dai primi anni Cinquanta si era vista rimbalzare quella bala sloza sul prato – invero piuttosto scarso d’erba – dell’impianto di piazza Piloni, dove ora si trova il parco Città di Bologna.

A mettere ordine negli archivi della palla ovale gialloblù è ora Toni Palma, a sua volta storico protagonista della vita del club, il quale ha raccolto 260 pagine di materiale in un prezioso almanacco. Il primo input sono stati i racconti dei pionieri in una osteria di Castion, di fronte a pan e salame e un bicchiere – beh, forse anche più di uno – di rosso.

«Della storia del nostro club si avevano tante informazioni ma tutte un po’ alla rinfusa, così per qualche settimana mi sono trasformato in “topo di biblioteca” e ho collezionato gli articoli che parlavano di noi fin dalla fondazione», spiega Toni. “Rugby a… Belluno. 1957-2014” è una sorta di atto di amore verso le generazioni di rugbisti che hanno vissuto, passo dopo passo, quella singolare avventura cominciata più di cinquant’anni fa.

E’ singolare, anzitutto, che il merito di aver portato per primo l’ovale a Belluno spetti non a un veneto ma addirittura a… un romano, con il cognome dell’attore più romano che esista. Oscar Fabrizi, classe 1918, alle spalle esperienze di prima della guerra nel rugby capitolino, insegnava Educazione Fisica nei licei cittadini. Pescando fra i suoi allievi, ma non solo, Fabrizi forma prima la squadra che allena personalmente e al contempo la società che presiede. Nel 1957-58 il campionato d’esordio e pure i due primissimi derby con il Feltre: una vittoria per parte.

Poi scattò l’esperienza del XIII. Per il rugby italiano fu un autentico scisma, che ai “tredicisti” bellunesi costò la radiazione dalla Fir. Ripartenza dalla serie D, quindi tanta ma tanta gavetta che in certo senso esalta la predisposizione al sacrificio di certi uomini-simbolo della palla ovale gialloblù come il pilone Renzo “Orso” Saronide (nella foto in alto, il secondo con gli inconfondibili baffoni).

Con gli anni Ottanta e Novanta arrivano anche le gratificazioni, nella forma sia delle stagioni di serie A2 delle sponsorizzazioni Occhiali VogueAntico Cadore che delle maglie azzurre dei ragazzi svezzati a Belluno, da Renato De Bernardo e Roberto Saetti a Corrado Pilat già in era Sei Nazioni.

Pur scivolato oggi in C, il club di base a Villa Montalban gode comunque di buona salute con un solido vivaio e non ha perso nulla della sua passione per la bala sloza.

«Giù in pianura è più facile, anche dal punto di vista logistico, unire le forze per le squadre giovanili», rileva Toni Palma, in passato tecnico anche a Conegliano e oggi collaboratore della nascente realtà di Vittorio Veneto, «nell’area montana continuiamo invece a soffrire l’isolamento e il campanilismo rispetto alle realtà vicine di Feltre e ad Alpago».

«Il mio sogno è una prima squadra con i migliori dei tre club dolomitici, sono certo che potremmo giocare una serie B di alta classifica. Ma purtroppo in montagna abbiamo la testa dura…»

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

L’ovale al di là del muro. E ora il rugby di scuola Petrarca entra al Due Palazzi

$
0
0

Un pallone ovale, una partita di rugby – una semplice palla e quel semplice gioco in cui, come disse Willy John McBride, trenta uomini rincorrono un sacco pieno di d’aria – possono avere molti significati. «Sono momenti vissuti con intensità, questi ragazzi hanno un grande bisogno di muoversi e di liberare le proprie energie in mezzo a giornate dominate dalla noia», racconta Lorenzo Piazza, ex-giocatore che a Bologna è impegnato nel progetto “Tornare in campo”.

«Chi sta dentro vive in un’atmosfera in cui la violenza è sempre presente, in modo palese o latente, ecco che il rugby, uno sport di contatto, diventa un terreno privilegiato per confrontarsi attorno a queste questioni».

“Chi sta dentro” sono in questo caso gli atleti del Giallo Dozza, squadra che quest’anno per la prima volta prende parte alla serie C2 emiliana. Tutti detenuti della casa circondariale bolognese, che si allenano tre volte a settimana – più una seduta teorica – per preparare la partita della domenica, disputata giocoforza sempre in casa.

Ancora zero vittorie, ma fra i protagonisti dell’esperienza il motivo di orgoglio, piuttosto, è che la squadra non sia mai incappata in espulsioni (a differenza degli avversari). Giusto due cartellini gialli nel corso del torneo, che nel rugby non sono niente.

In carcere il progetto “Tornare in campo” offre anzitutto un’occasione di attività motoria. Ma il rugby è anche qualcosa d’altro: uno sport fisico e duro che accetta l’aggressività e in un certo senso la celebra, ma che tuttavia si fonda, per non degenerare in zuffa incontrollata, sul rispetto delle regole e dell’autorità arbitrale, sulla gestione degli istinti. E uno sport che apprezza il gesto individuale ma gli antepone la dimensione collettiva.

Punti di partenza rilevanti in un ambito come quello del carcere e di quella funzione “rieducativa” che dovrebbe rappresentare il suo mandato essenziale (il condizionale è d’obbligo, visti i problemi italiani).

«Forse la cosa più difficile per i ragazzi, all’inizio, era accettare di avere un allenatore che dicesse loro cosa fare, talora con toni anche bruschi, naturalmente», racconta Lorenzo dell’esperienza della Dozza, il cui tecnico è Massimiliano Zancuoghi, ottimo trequarti all’Arcoveggio ai tempi del Bologna in A, «oggi c’è un bellissimo gruppo, va considerato anche che molti sono stranieri e di diverse provenienze. Si sono creati dei legami forti. Anche con chi visita la casa circondariale da avversario e che dopo la partita si ferma per il terzo tempo».

Il rugby nelle carceri è ormai una realtà vivace e articolata, anche grazie al sostegno della Fir. Un’attività in cui i tanto decantati valori del nostro sport si traducono in un’esperienza ricca di stimoli. Un prezioso libro di Antonio Falda, “Per la libertà”, racconta queste storie: Nisida, Beccaria, Terni, La Drola a Torino, i Bisonti a Frosinone, e ancora Porto Azzurro, Firenze.

Ora tocca al Due Palazzi di Padova, dove il progetto che si è aggiudicato un bando dell’Asl sta muovendo i suoi primi passi proprio in queste settimane.

All’origine dell’iniziativa un petrarchino doc, Luca Costantino, giocatore dagli 8 ai 19 anni ora convertitosi al touch, allenatore di minirugby e giovanili alla Guizza, ma anche nello staff logistico dei match della Nazionale all’Olimpico.

«C’è tanta palla ovale in ogni mia giornata, è una passione e un divertimento, dal Petrarca però ho assimilato l’idea che il rugby debba essere qualcosa di più di uno sport, uno strumento per crescere nella vita», sottolinea Costantino, «sono certo che il rugby possa fare molto in situazioni di disagio, di qui il progetto sviluppato in collaborazione con il dottor Felice Nava, responsabile dell’Unità operativa di Sanità Penitenziaria».

«Il mio obiettivo iniziale, come sempre per un allenatore, sarà di creare un gruppo di amici. Più a lungo termine vorrei che attraverso il rugby si potesse creare un ponte fra “dentro” e “fuori”, che magari qualcuno, una volta uscito dal carcere, possa trovare un club dove giocare e incontrare dei compagni».

All’interno della casa circondariale padovana esiste già la Polisportiva Pallalpiede, dove la palla è quella rotonda da calcio. La squadra sta disputando – con ottimi risultati – il campionato di Terza Categoria.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby.

Twitter: @elvislucchese

Paolo Rosi, un ragazzo del secolo scorso fra Treviso, Roma e Twickenham

$
0
0

Per la gente di rugby il nome, anzi la voce di Paolo Rosi significano una cosa sola: Cinque Nazioni. Le immagini del torneo più antico, trasmesse dalla Rai il sabato pomeriggio precedute dall’inconfondibile sigla dell’Eurovisione, erano piene di poesia. I minatori dell’Arms Park e le basette dei geniali trequarti gallesi, il trenino che passava sotto Lansdowne Road, le cornamuse di Murrayfield. E ancora il Parco dei Principi, lo squalo Jeffrey, l’angelo biondo Rives, i fratelli Rory e Tony Underwood, «piloti della Raf».

Le parole di Rosi aggiungevano altra poesia a quel mondo allora così lontano. Le sue cronache erano attente e competenti ma misurate, di una eleganza molto british, ricche anche di lunghi silenzi come a voler lasciare spazio allo spettacolo del campo (anni luce dalla ridondanza e dal narcisismo dei giornalisti televisivi di oggi).

L’amore di Rosi per il nostro sport era trasparente e si coglieva dal gusto per il racconto, dal trasporto per la bellezza del gesto tecnico. Quella voce era, così, parte stessa della magia del Cinque Nazioni e del rugby.

Alla figura di Paolo Rosi è dedicata ora una densa biografia firmata da Federico Meda, basata sulle testimonianze di numerosi compagni di squadra e di viaggio (giungendo persino a… Gianni Vattimo). Il ritratto di un ragazzo del secolo scorso, le cui vicende si intrecciano – al di là del rugby – con eventi che cambiano il paese, dalla guerra alla rivoluzione dettata dall’avvento del mass medium per eccellenza, la televisione.

Nato a Roma nel 1924, Rosi aveva trascorso un’infanzia felice a Treviso, ospite della nonna in occasione della malattia della madre Filomena. Quartiere Sant’Antonino.

“Nonna Marietta è perentoria: “El putèo? O tiro su mi a Treviso”. E così fu, per tre lunghi anni. “Treviso è la città più bella d’Italia”. Chi conosceva Paolo davvero, questa frase la ricorda perfettamente.”

E quando a Roma – a 15 anni, sulle orme del fratello Manlio – Paolino comincerà con il rugby, mamma non smetterà di domandare, nel suo dialetto: «Non sarà miga pericoeòso, ‘sto zogo?».

Le atmosfere del racconto della giovinezza di Rosi sono quella di “Una giornata particolare”, poi di “Roma città aperta”. Se una pleurite costringe Paolo a chiudere con lo sport, allo stesso tempo è la malattia che gli evita la chiamata alle armi e i drammi del fronte e dell’8 settembre.

Con il dopoguerra nella capitale riprende, di slancio, anche il rugby, legato ai nomi leggendari di “Bubi” Farinelli e Piero Gabrielli, quest’ultimo gestore con la famiglia delle Grotte del Piccione, un night alla moda a due passi da piazza Navona. Ed esplode il talento di Rosi, trequarti capace di fulminee accellerazioni. Per i rugbisti romani è un po’ “La Dolce Vita”, ma abbinata con il piacere dello stare insieme di “Amici miei” e dei loro crudeli scherzi.

Il libro di Meda non manca comunque di dar conto dei lati oscuri del carattere di Rosi. Il quale non è l’accattivante personaggio che piace a tutti. In campo non è un cuor di leone, in trasferta spesso non sta nel branco che tira tardi compiendo picaresche scorribande, mentre il distacco e la riservatezza per la sua vita privata lo renderanno sempre indecifrabile anche agli occhi degli amici più intimi.

Con il rugby capitolino il rapporto è controverso, pur non essendo mai stata messa in discussione la sua classe. Rosi, che con la Roma vince due scudetti, gioca anche a L’Aquila e a Napoli. E in Nazionale: 12 presenze fra il 1948 e il 1954, di cui 4 da capitano (attenzione, allora gli azzurri non giocavano più di due o tre match a stagione).

Invitato a far parte di una selezione internazionale in occasione del 75esimo della fondazione del Rosslyn Park, il trequarti romano incanta gli inglesi con una meta da antologia sul campo di Twickenham. E’ il 1953. Un anno dopo verranno inaugurate le trasmissioni televisive e per Rosi comincerà una lunga carriera di giornalista sportivo. Un capitolo della sua biografia che è anche un pezzo di storia della Rai.

Il televisore nella casa degli italiani diffonde voci che accompagneranno generazioni, come Tito Stagno, Adriano De Zan. Per Rosi, sempre con il rugby nel cuore, c’è tanto pugilato e tantissima atletica con i trionfi azzurri da Berruti a Mennea e Cova. E per l’ultima telecronaca prima della pensione (ma collaborerà ancora per il rugby) la sorte gli regala ancora uno storico successo. E’ il 1988 e il vicentino Gelindo Bordin strappa l’oro nella maratona alle Olimpiadi di Seul. Privato del microfono, vivrà malinconicamente gli ultimi anni. Muore nel 1997.

La sua voce si può riascoltare, ad esempio, in questo video. Narrando una celebre azione del Benetton nella finale-scudetto del ’92, Rosi si entusiasma e torna a vestire la maglia di rugbista della sua gioventù.

Clicca qui per vedere il video incorporato.

Federico Meda, “Una finta a destra, una a sinistra. Paolo Rosi, il primo italiano a segnare a Twickenham”, Absolutely Free, 196 pagg., 14 euro. Il libro verrà presentato sabato 28 marzo alle 12 presso l’Osteria da Nea, a Silea (Treviso).

Il Mogliano a Krasnodar e le bizzarrie della terza coppa europea

$
0
0

Quella del Mogliano a Krasnodar, Russia meridionale, non sarà la trasferta più pazza del rugby italiano, visto che la Nazionale azzurra nel 1998 si recò nella quasi omonima Krasnoyarsk che però si trova nel cuore della Siberia. Viaggio passato nella epica narrativa del gruppo Coste: obbligato ad uno stop imprevisto, il capitano dell’aereo chiese ai passeggeri di fare una colletta per il rifornimento di carburante, mentre l’ultimo tratto verso la cittadina siberiana fu percorso a bordo di un datato Ilyushin un per nulla rassicurante. Per la cronaca, la Russia fu comunque sconfitta agevolmente 48-18 in un match per le qualificazioni mondiali.

Per giocare il 4 aprile prossimo nel secondo turno della terza coppa europea (che non ha neppure una denominazione ufficiale) la squadra del Mogliano prenderà “solo” due aerei – da Venezia a Sochi via Mosca – e quindi un pullman per le sei ore necessarie a raggiungere appunto Krasnodar. Sabato di Pasqua, peraltro, anche se nel mondo ortodosso la festività cade quest’anno sette giorni dopo.

Nella località sul mar Nero, dal clima temperato, i veneti saranno ospiti dello Enisei STM, di stanza proprio a Krasnoyarsk in Siberia e che quindi a sua volta si sobbarcherà una lunga trasferta. Anzi, come è stato sottolineato sul profilo twitter dei russi, il club farà un viaggio di 3.883 km lungo 4 fusi orari, mentre il tragitto del Mogliano sarà di “soli” 2.082 km e un fuso orario.

Squadra campione e di riferimento per il rugby russo e per la sua Nazionale, con cui condivide il tecnico Alexander Pervukhin e un blocco di 10-15 giocatori, e dotata di un budget che la rende capace di reclutare anche all’estero (vi giocò anche il neozelandese Ryan Bambry, ex VeneziaMestre).

«I nostri avversari sono davvero molto dotati fisicamente, anche fra i trequarti, al di là della fatica del viaggio sarà una battaglia durissima», sottolinea “Kino” Properzi, tecnico del Mogliano.

Sarà uno spareggio per il passaggio del turno, poiché entrambe hanno battuto nettamente l’Universitàrio Lisbona nelle prime due gare, i veneti con bonus al “Quaggia” e i russi 28-6 in Portogallo. Dovesse spuntarla al Trud Stadium di Krasnodar, il Mogliano dovrà affrontare il doppio confronto con i campioni di Romania del Baia Mare il 18 aprile e 2 maggio, dal quale emergerà il team partecipante alla Challenge Cup della prossima stagione.

«L’Enisei ha un gioco certamente più consistente rispetto al Lisboa», commenta Properzi, «oltre alla fisicità che dobbiamo aspettarci nei punti di incontro, sanno anche correre e muovere la palla. Manca loro un po’ di continuità, talora commettono qualche errore ingenuo. Noi abbiamo creato un gruppo forte, con giocatori che si sono imposti per leadership come Marco Filippucci. Dobbiamo essere in grado di gestire anche le partite in situazioni poco comode».

Nell’altro girone è avviato al successo il Calvisano, che pertanto finirebbe per affrontare il Rovigo nel doppio spareggio. Giocare in Challenge Cup, per il relativo contributo economico, fa gola a tutti. Certo le norme del torneo di qualificazione sono davvero bizzarre. Anche perché chi vincerà il campionato italiano – di sicuro una fra Mogliano, Calvisano e Rovigo – invece alla prossima coppa europea non avrà il diritto di partecipare…

Razza Piave alla neozelandese. Jason Wright e la rivelazione San Donà

$
0
0

Scritto da Bruce Robertson e Bill Osborne, “Rugby Coaching, the New Zealand Way” è stato un libro capitale nel suo genere. Erano gli anni Ottanta e il pianeta di Ovalia era ancora diviso in scuole nazionali orgogliosamente gelose del proprio stile.

Robertson e Osborne – splendida coppia di centri che si erano potuti ammirare a Padova nella primissima apparizione italiana degli All Blacks – svelavano i dettagli del fare rugby alla maniera neozelandese, costringendo così gli allenatori di mezzo mondo a rimettere in discussione princìpi e metodi consolidati.

Ovalia ha poi conosciuto il professionismo e la globalizzazione. Eppure quel paese così periferico, lontano da tutto e abitato da soli 4 milioni di abitanti, nel rugby è ancora il modello di riferimento, forte di un “peso specifico” culturale che non ha eguali.

Se gli All Blacks sono oggi il laboratorio delle innovazioni più significative sulle alte vette del gioco, tecnici neozelandesi si fanno al contempo apprezzare ad ogni latitudine e livello.

Ad esempio Jason Wright. Approdato in Italia dieci anni fa (per questioni… d’amore) e agganciato un po’ per caso dal San Donà, è divenuto ormai una figura-chiave nel club biancazzurro, qualcosa più che l’allenatore della prima squadra, guidata in tandem con Mauro Dal Sie.

In un ambiente intriso di tradizione e di un autentico senso di appartenenza come quello sandonatese, il kiwi Wright ha innestato un cambio di mentalità secondo i valori del suo rugby. “Razza Piave, the New Zealand Way”? Forse non sarà proprio così, ma intanto il Lafert è la vera sorpresa del campionato di Eccellenza quest’anno.

E la regina dei derby veneti: contro Mogliano i biancazzurri hanno raccolto un pari e una vittoria, hanno sorpreso una volta Rovigo, espugnato Padova. Il quarto posto significa che la semifinale va considerata ora un obiettivo concreto.

«Arrivare ad essere protagonisti in Eccellenza è una grande soddisfazione, tanto più se pensiamo dove eravamo sei anni fa, o ancora tre anni fa», dice Wright, «e se pensiamo anche che rimaniamo una squadra che si allena sempre alle sette e mezza di sera, mentre le prime in classifica, ma la stessa Viadana e in un certo senso le Fiamme Oro, sono realtà di professionisti. Raccogliamo adesso i frutti di un lavoro a lungo termine, portato avanti dalla società anche con diversi presidenti».

Classe 1969, da giocatore è stato un trequarti versatile, vestendo la maglia di Otago University e Highlanders in Nuova Zelanda, di Richmond e London Irish in Inghilterra e per una poco fortunata stagione anche del Benetton (1999/2000, allenatore Gajan).

Una laurea in Educazione fisica più un master in Psicologia dello sport all’ateneo di Dunedin, più tardi a Cambridge una seconda laurea in Scienze Politiche e l’occasione di disputare due volte il prestigioso Varsity Match a Twickenham. «Finendo imbattuto contro Oxford: una vittoria e un pareggio», sottolinea scherzando.

«Mi piace studiare e non avrei mai immaginato una carriera da allenatore. Succede poi che nel 2005 mi sono trasferito in Italia, per stare vicino alla mia ragazza che avevo conosciuto nell’anno di Treviso. Ho cominciato a dare una mano all’Oderzo, dopo poco è arrivata la chiamata del San Donà. Ho iniziato come tecnico dell’under 15, la mia formazione di allenatore è avvenuta all’interno del club accompagnando un gruppo di giocatori in tutto il loro percorso di crescita. Ragazzi di quella under 15, come Rorato, Dotta, Filippetto, Luca Zanusso, sono ora in prima squadra».

Tdr. Nelle scorse stagioni avevate provato a puntare su sole forze sandonatesi.

JW. «Ci siamo resi conto che il nostro gruppo non è ancora sufficientemente ampio e di qualità per un’Eccellenza di alta classifica. Ed è anche inevitabile che qualcuno dei nostri prosegua a più alto livello, come Zanusso, Bacchin e l’anno prossimo Filippo Filippetto. Siamo tutti felicissimi per loro, ma è un dato di fatto che San Donà li perde e che sostituirli non è facile. In questa stagione con l’arrivo di alcuni buoni giocatori da fuori abbiamo compiuto il salto di qualità, e tutto l’ambiente ne ha beneficiato».

Tdr. In particolare Matt Cornwell (foto) sta facendo la differenza.

JW. «Era la nostra principale scommessa. Era stato decisivo nel suo primo anno a Mogliano, ma la scorsa stagione, al ritorno dall’Inghilterra, invece aveva deluso. A San Donà si è trovato bene, lui stesso dice che si sta divertendo ed è motivatissimo, anche perché si tratta dell’ultima stagione prima del rientro definitivo a Leicester. In Matt abbiamo trovato un vero leader e un ottimo playmaker. Ma anche Koroi e Preston si sono rivelati importanti innesti, tutt’altra cosa rispetto ai problemi che avevamo incontrato l’anno scorso con Taumata e Flynn. Lo stesso vale per i vari Giovanchelli, Bernini, Patelli, che hanno affrontato la nuova esperienza con un approccio molto professionale, dando un esempio positivo per tutto il gruppo».

Tdr. Condivide la guida tecnica con Mauro Dal Sie, razza Piave doc.

JW. «Sta facendo un grande lavoro con la mischia. Anche in questo caso si tratta di un’esperienza di lungo termine, dato che insieme abbiamo già allenato fin dall’under 17. Anche se litighiamo tutti i santi giorni, siamo una coppia affiatata».

Tdr. Cosa ritiene di avere dato all’ambiente sandonatese?

JW. «La mia sfida, ancora in corso, è stata quella di cambiare la mentalità italiana e di proporre l’approccio neozelandese che ho sperimentato fin da bambino. A San Donà tradizione e identità sono forti, eppure non vedevo nei ragazzi quell’atteggiamento per cui il rugby diventa uno stile di vita. Quello che cerco di trasmettere è che lo sport deve essere una sfida personale quotidiana, da vivere con intensità in ogni momento, dalla preparazione alla partita. In questo senso il mio modo di essere si scontra un po’ con il carattere “latino” dei giocatori».

Tdr. Quali sono stati gli allenatori che l’hanno più ispirata?

JW. «Tony Gilbert e Gordon Hunter, i primi che ho avuto quando sono arrivato al rugby professionistico con Otago. Entrambi sono stati nello staff degli All Blacks. Penso a Gilbert per il suo approccio nella gestione del giocatore, instaurava un rapporto personale con ognuno di noi. La lezione è che si deve interagire, non insegnare. Quanto ad Hunter, era un grande motivatore: giocavo per lui, per guadagnare il suo rispetto. Ma ho imparato davvero un po’ da tutti, anche da Dick Best che ho avuto agli Irish. Un allenatore con la fama di “duro”, che aveva guidato anche l’Inghilterra e i Lions. Il genere di coach che se pioveva rimaneva sotto la tribuna dirigendoci con un megafono, che mentre noi ci allenavamo d’estate, con un gran caldo, se ne stava sotto l’ombrellone asciugandosi il sudore dalla fronte con una banconota da 50 pounds…»

Tdr. Quali considera i migliori tecnici al mondo in questo momento?

JW. «Non saprei dire un nome, ma di certo neozelandesi e australiani. Sono gli unici che ricercano la vittoria attraverso il gioco. Hanno idee più aperte, sperimentano sempre nuove situazioni, soprattutto offensive. Pensiamo a come Joe Schmidt ha saputo far giocare i trequarti del Leinster, e a come fa giocare ora l’Irlanda».

Tdr. Un modo per definire il rugby, o la sua idea di rugby?

JW. «Fare le cose semplici ma farle bene. Ed è quello che c’è scritto in grande nel nostro spogliatoio. Sono cresciuto con questa idea in Nuova Zelanda: che sia necessario saper fare bene quel che conta davvero, a cominciare dal passaggio e dal placcaggio. Il resto verrà di conseguenza».

Tdr. Quanto alla formazione dei giocatori, cosa c’è che potremmo copiare dal paese degli All Blacks? In che cosa sbagliamo in Italia?

«Sono due mondi molto lontani e che non si possono mettere a confronto. Anzitutto perchè a formare i giocatori in Nuova Zelanda – e negli altri paesi anglosassoni – ci pensa principalmente la scuola, in cui lo sport è tenuto in grande considerazione. Ricordo con grande piacere tutto il tempo dedicato al cricket e al rugby con i compagni, mi dispiace che mio figlio Gianmarco non potrà vivere la stessa esperienza che peraltro nulla toglie allo studio, ma lo arricchisce. Altro aspetto del rugby neozelandese è la competizione per emergere, con la quale ci confrontiamo fin da giovanissimi. Addirittura ci sono torneo di touch in cui la squadre di adulti devono includere dei ragazzi e perfino dei bambini, di modo che questi si abituino a giocare ad un livello più alto».

«In Italia il talento c’è, il sistema di formazione non ho i mezzi per giudicarlo, certo le Accademie fanno venire in mente tante domande ma credo che ci sarà chi farà delle verifiche sui loro risultati a fronte degli investimenti. Di Brunel apprezzo il fatto che non si faccia problemi a far esordire i giovani, senza aspettare che abbiano grande esperienza di club. Fanno così anche gli All Blacks. Io credo che ad un certo livello un ragazzo c’è o non c’è, poi certamente i giovani vanno gestiti e aiutati adeguatamente nella loro crescita».

 

(Foto Ottavia Da Re / Rugby San Donà)

La terra del rugby su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

twitter: elvislucchese

Il guru Eddie Jones a Treviso: «Per insegnare e imparare»

$
0
0

L’australiano Eddie Jones, uno dei grandi tecnici del rugby mondiale, è in Ghirada per la prima delle nove settimane che a lungo termine rappresenteranno la sua “superconsulenza” al Benetton. Attuale allenatore del Giappone, il suo nome è legato ai Wallabies, che condusse da head coach fino alla finale del Mondiale 2003, e al Sud Africa campione nel 2007 (allora era assistente di Jake White).

Giunto domenica notte a Treviso, Jones ha incontrato lo staff biancoverde già domenica mattina per la prima riunione tecnica, soffermandosi poi a margine dell’allenamento con l’amico Craig Green, anch’egli con stagioni giapponesi alle spalle.

«Sono contento di essere in Italia, un paese che amo molto», spiega, «il contatto con Treviso c’è stato grazie a Fabio Ongaro, un amico dai tempi dei Saracens. L’esperienza da consulente tecnico non è nuova per me, l’ho fatto in passato in Sud Africa e in Giappone. Sono situazioni interessanti che mi danno la possibilità di imparare e di confrontarmi con altri approcci di rugby, di crescere come allenatore. Ogni volta si aprono nuovi orizzonti».

Tdr. Come lavorerà in questa settimana?

EJ. «Principalmente il mio compito è di formare lo staff, analizzare i metodi e provare a dare qualche indicazione per migliorare, cioè “to coach the coaches”. Un lavoro che proseguirà nei prossimi mesi, anche a distanza, mentre non dirigerò personalmente gli allenamenti».

Tdr. Quale idea si è fatto del Benetton, sulla base delle informazioni raccolte finora?

EJ. «Ho avuto modo di visionare le ultime sei partite giocate ed è chiaro a tutti che l’impegno di questa stagione è molto duro. Non manca qualità fra i giocatori, ad esempio conosco bene Hayward e Christie che erano a Western Force, ma per strutturare il gioco di una squadra ci vuole tempo. Il principale aspetto sul quale lavorare? Trovo che la squadra abbia delle difficoltà in difesa, o meglio nella continuità (“consistency”, ndr) difensiva. Si difende bene per un tratto di partita, poi improvvisamente si perde ordine nello schieramento, si concedono falli stupidi. Ma lavoreremo anche sul gioco di set-piece, sui movimenti collettivi da fasi statiche, decisivi per poter essere efficaci in attacco».

Tdr. I Mondiali sono alle porte. Quali prospettive per Australia e Giappone, le due squadre che conosce meglio?

EJ. «Il Giappone sta crescendo ma rimane ancora molto lavoro da fare per essere competitivi con le migliori al mondo. Di fatto in tutte le precedenti World Cup abbiamo vinto una sola volta in 24 partite, in Inghilterra potremmo anche fare la storia… (sorride, il girone dei nipponici non è impossibile con Sud Africa, Scozia, Samoa e Stati Uniti, ndr). Quanto ai Wallabies, credo che arriveranno molto lontano. Hanno giocatori di altissimo livello: Genia, Cooper, McCalman, Folau. Ma soprattuto hanno ora un coach di grande spessore come Michael Cheika».

Tdr. L’Italia?

EJ. «Trovo che abbia degli ottimi giocatori. Manca la profondità? Questi sono problemi complessi, bisognerebbe esaminare il sistema di formazione che c’è qui. Ma attenzione, gran parte delle Nazionali dipendono dai migliori 20-25 uomini. Australia compresa. Gli unici paesi che hanno la capacità di produrre continuamente nuovi talenti sono la Nuova Zelanda, il Sud Africa e l’Inghilterra, forse la Francia».

Sabato Jones assisterà a Monigo all’impegno del Benetton in Guinness Pro12, contro i Newport Dragons. Pronti al rientro in maglia biancoverde Michele Campagnaro (ristabilitosi dalla distorsione al ginocchio) e gli altri azzurri, ad eccezione degli infortunati Morisi, Favaro e Zanni. Fermo per uno stiramento anche l’argentino Guemes, il cui esordio è pertanto ulteriormente rimandato.

 

La terra del rugby su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

twitter: elvislucchese


Pippo Bado il globetrotter. Dal Cus Padova alla Polonia, via Bahrein e Nuova Zelanda

$
0
0

La confraternita del rugby è universale. Cambia magari l’approccio e lo sfondo, ma in ogni angolo del mondo – o quasi – ci sarà sempre un branco di matti che rincorre i rimbalzi di un pallone ovale. Cioè un gruppo di amici pronto a riconoscerti subito come “uno della cricca”.

Filippo Bado questa storia da expatriates la conosce bene: cresciuto nel Cus Padova, ha già giocato in Spagna, in Nuova Zelanda, in Inghilterra e in Bahrein (sì, in Bahrein). Una bella collezione di magliette, alla quale vanno aggiunte le italiane di Bologna, Modena, VeneziaMestre, Riviera e Ravenna.

Ma per il globetrotter Bado il viaggio nel mondo ovale continua. Nuova tappa in Polonia, e nuova maglia. Colori gialloblù, simbolo un bulldog, la squadra si chiama Arka Gdynia.

«La scorsa estate l’azienda per cui lavoro mi ha proposto di trasferirmi presso Danzica», racconta Bado, per tutti Pippo, laureato in Scienze Ambientali, «sono arrivato a novembre e da gennaio ho cominciato ad allenarmi assieme ai ragazzi dell’Arka che partecipano all’Extraliga, il massimo campionato. Il livello è buono, decisamente migliore di quanto mi aspettassi».

«Ci sono 9 giocatori della Nazionale polacca, diversi di loro hanno anche esperienza in serie minori di Francia, Scozia e Irlanda. I migliori dell’Arka, per doti sia tecniche che fisiche, potrebbero senz’altro ben figurare in formazioni di media classifica dell’Eccellenza italiana. Ho giocato finora soltanto un paio di amichevoli, ma ciò che conta è aver trovato anche qui un modo per essere parte dell’ambiente del rugby».

Esordiente in serie A nel giorno del ventesimo compleanno nelle fila del Cus, il padovano ha fatto la sua prima esperienza all’estero nel 2003-2004, quando si trovava in Spagna per motivi di studio. L’Universidad de Sevilla disputa la Division de Honor, cioè la serie A iberica che tanto lontano dall’Italia non deve essere se in quella stagione El Salvador e Santboiana battono Rovigo e L’Aquila. Nel 2008 Pippo corona il sogno di ogni rugbista volando in Nuova Zelanda.

«Dopo Bologna e Modena, ero approdato nel Super Ten grazie alla chiamata del VeneziaMestre. Avevo anche concluso la laurea specialistica, così quell’estate mi faccio un regalo e parto. Sfruttando qualche conoscenza trovo una squadra a Dunedin, Zingari Richmond F.C., fondata nel 1878, che gioca nel campionato di club di Otago. Da questo torneo vengono scelti i giocatori per la squadra dell’NPC, così mi sono trovato assieme a gente che era già negli Highlanders dell’allora Super14».

«Nel 2009, quando sono ancora nel VeneziaMestre, decido di cominciare a pensare più seriamente al futuro. Mi iscrivo ad un master e d’estate vado in Inghilterra per un periodo di studio e lavoro. E a Stafford, naturalmente, mi alleno con la squadra locale. Rientro proprio alla vigilia del campionato Midlands 2, cinque categorie sotto la Premiership».

Ma l’avventura più singolare è quella nel golfo arabo. «Nel 2011 mi trasferisco per lavoro ad Al Jubail, in Arabia Saudita. Scopro che oltre confine, in Bahrein, si gioca a rugby. Sono tre ore di macchina, naturalmente non posso prendere parte assiduamente agli allenamenti ma appena posso, nel fine settimana, vado lì a placare la crisi di astinenza da palla ovale. E si gioca anche un gran bel rugby, perché la squadra è composta quasi interamente da neozelandesi, sudafricani, inglesi e irlandesi, che si trovano in Bahrein per lavoro».

A latitudini diverse la cultura del rugby diviene così un esperanto che unisce. «Dovunque ho conosciuto persone che amano profondamente il nostro sport e che lo praticano con dedizione assoluta, che sia l’Inghilterra e la Nuova Zelanda oppure paesi con minor tradizione come Polonia e Spagna. E dovunque dopo la partita si resta a bere una birra insieme, con la sola eccezione del golfo arabo dove l’alcol è consentito solamente in certi luoghi».

«Poi ci sono anche delle differenze. I terzi tempi fatti in Spagna rimarranno per me indimenticabili. In Nuova Zelanda è incredibile come il rugby sia parte della vita di tutti i giorni. Tutti lo guardano, ne parlano e ci giocano alla sera con gli amici nel campetto dietro casa. Ed è qualcosa di unico il modo di vivere il club, come un vero e proprio circolo dove portare le famiglie la domenica.

«In Bahrein invece il rugby funziona come un mezzo per aggregare persone di diversa provenienza, tutti però alle prese con un contesto lontano e difficile come il mondo islamico. Alla fine in ogni ambiente che ho frequentato ciò che conta è la voglia di divertirsi e di stare insieme, di fare gruppo. E questo è un grande aiuto per chi deve ambientarsi in un altro paese».

Come appunto adesso, in Polonia. «La lingua è un problema, per fortuna l’allenatore e molti compagni parlano inglese ma intanto ormai ho imparato i nomi delle giocate e le parole base che mi servono per comunicare in campo: destra e sinistra, più e meno, mio e tuo, salire, scalare, passare, calciare… Il campionato sta per riprendere dopo la sosta invernale. Mi piacerebbe giocare, ma dal 2011 ho smesso di allenarmi seriamente e i trequarti dell’Arka sono molto forti. Come dicevo, si tratta di una bella realtà, a Gdynia ci sono anche delle ottime strutture e uno stadio da 2.500 posti che si riempie per i derby. L’obiettivo è entrare in forma al più presto, visto che arrivo anche da un infortunio alla caviglia, il resto vedremo».

Ma il giro del mondo ovale potrebbe anche non essere finito qui. «Il progetto su cui sto lavorando, che dovrebbe durare un paio d’anni, sta attraversando una fase critica. Potrebbe essere che a maggio venga sospeso, in tal caso mi sposterei altrove». E vuoi non trovare un’altra squadra di rugby?

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

Franco Smith a caccia del primo titolo, Shimlas in finale di Varsity Cup

$
0
0

Momento di grandi soddisfazioni per Franco Smith, l’allenatore sudafricano che ha guidato il Benetton per sette stagioni dal 2007 al 2013. Il tecnico di Lichtenburg ha assunto quest’anno la conduzione degli Shimlas, formazione della Free State University nel cuore della filiera regionale che conduce ai Cheetahs di Vodacom Cup, Currie Cup e SuperXV.

La squadra con sede a Bloemfontein partecipa alla Varsity Cup, che mette a confronto gli atenei sudafricani e che rappresenta un torneo niente affatto minore nel paese degli Springboks. Tutti i protagonisti del rugby verde-oro sono transitati dalla Varsity Cup, utilizzata anche come laboratorio per nuove regole (in questa edizione assegnati 3 punti per il calcio di trasformazione e 2 per i piazzati, al fine di incentivare il gioco).

Gli Shimlas erano reduci da un’annata modesta, con un record di 3-3-1 ed esclusi dai playoff. Nella Varsity Cup iniziata a gennaio gli universitari di Free State sono invece ancora imbattuti, avendo concluso la prima fase con 6 vittorie e un pareggio.

Nella semifinale casalinga di ieri (in diretta tv) gli Shimlas hanno battuto i campioni in carica Ikeys, dell’università di Cape Town, con un netto 21-10. Nell’altra sfida  i Tuks sono stati sorpresi a Pretoria dai Pukke della North-West University (28-29).

Quella del prossimo 13 aprile sarà la prima finale in assoluto per gli Shimlas, che godranno del vantaggio del campo.

Per Franco Smith l’opportunità di conquistare il suo primo titolo da capo-allenatore, dopo la Currie Cup vinta nel 2007 con i Cheetahs da assistente di Naka Drotské.

«Abbiamo potuto sfruttare la profondità di Free State, arrivando a utilizzare una cinquantina di giocatori», ha detto Smith, «ma il lavoro è appena cominciato, rimaniamo umili».

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

 

Le donne del rugby. Dalla clandestinità agli autografi, una rivoluzione culturale

$
0
0

I tre successi nel Sei Nazioni recentemente concluso hanno regalato alle azzurre della palla ovale un’inedita attenzione da parte di appassionati e media. Probabilmente non durerà che l’espace d’un matin, ma brave intanto queste ragazze che oggi competono alla pari con tutte le avversarie.

Se la voglia di rugby scoppiata da qualche anno è stata sempre frustrata da mestissimi risultati sugli scenari internazionali, l’Italia femminile oggi è – anche senza volerlo – l’unica squadra a rispettare le promesse esternate in passato da ct e presidenti federali, voli pindarici del tipo «possiamo vincere tre partite nel Sei Nazioni» e «lotteremo per la conquista del torneo».

L’affermazione delle donne nel nostro sport, tuttavia, va al di là dei risultati conquistati sul campo. Si tratta di una sorta di rivoluzione culturale, combattuta con ostinazione e un briciolo di follia per ben 35 anni. «Noi “vecchie” siamo sempre in tribuna a tifare per le azzurre, ogni loro successo ci dà i brividi e ci riempie di gioia», spiega Iolanda Baratto, per tutti “la Iole”, trevigiana, fra le pioniere assolute della disciplina, «quando cominciammo fummo derise e osteggiate, ma abbiamo sempre tenuto duro. E’ un po’ anche grazie a quella nostra testardaggine che oggi il rugby femminile è una realtà».

La lunga marcia era cominciata con le rugbiste nella condizione di clandestine, di fronte alla durissima ostilità di un mondo allora tutto al maschile. Fine anni Settanta. Si comincia, più o meno contemporaneamente, dalle parti di Milano, Roma, Bologna e Vicenza. E a Treviso, che diventerà a lungo la capitale della disciplina.

La reazione è di scetticismo, quando non di avversione e di scherno. «Tra il rugby maschile e il rugby femminile c’è una sola differenza: il rugby», dichiara Marco Bollesan dopo un’esibizione di squadre francesi a Rho. Per le pioniere le difficoltà da superare sono enormi.

A Treviso le ragazze si ritrovano a San Lazzaro, sede della palla ovale cittadina, ma per i primi allenamenti devono accontentarsi dell’unico spazio disponibile, cioè… il parcheggio del cimitero. La Tarvisium più tardi concederà loro un piccolo spazio all’interno del suo campo, e per riconoscimento verso il club delle “magliette rosse” la squadra si chiamerà Red Panthers (nome azzeccato: le trevigiane vinceranno 19 titoli consecutivi). Per autofinanziarsi le ragazze versano ognuna 2.500 lire al mese.

La prima partita diciamo “ufficiale” di rugby femminile in Italia si gioca il 13 aprile 1980, una domenica mattina. A Lancenigo di Villorba, su un campo che è stato bonificato asportando carriole di sassi e detriti, si fronteggiano Treviso e Cus Milano, con dodici giocatrici per parte più tre riserve volanti. Bruna Collodo (foto) va in meta dopo 5’, imitata a inizio ripresa da Valentina Napolitano, mentre per le lombarde accorcia le distanze Donatella Gentile. Finisce 8-4 per le padrone di casa.

Nell’estate di quello stesso anno Giorgio Fantin, animatore dell’avventura trevigiana, scrive alla Fir: «Vorrei che la nostra famiglia di rugbisti potesse accogliere anche le ragazze. Anche io ero refrattario, il rugby è virilità, ma queste ragazzine hanno un amore per il rugby contagioso».

La replica tranchant del presidente Aldo Invernici non lascia speranze: «Rispondo alla tua per dirTi, con la massima schiettezza, che la Fir non potrà riconoscere questo tipo di attività per il motivo estremamente semplice che non è riconosciuta né dalla International Board, né dalla Fira. Non sarà possibile, pertanto, né l’affiliazione, né il tesseramento, né gli arbitraggi ufficiali».

I primi sette campionati italiani, dal 1985 al 1991, si svolgeranno così sotto l’egida della Uisp. Se gli arbitri Fir vengono diffidati dal dirigere gare femminili, il numero uno dei nostri fischietti, l’internazionale Natalino Cadamuro, ignorerà più volte il divieto con un consapevole atteggiamento di “disobbedienza civile”.

Ancora nel 1992 la preoccupazione – degli uomini – per l’integrità fisica delle atlete rimaneva uno dei temi ricorrenti, tanto da giustificare un convegno organizzato dalla stessa Fir.

Isabella Doria, apripista dell’esperienza milanese e poi in campo fino ai suoi 42 anni, doveva ancora rassicurare la platea con argomenti di questo tipo: «Medici qualificati possono attestare che dal punto di vista ormonale la pratica del rugby non comporta nessuna alterazione e quindi fisiologicamente la femminilità non viene stravolta. Non viene stravolta neanche negli atteggiamenti quotidiani e per questo basta semplicemente osservare le atlete che, pur giocando a rugby, dimostrano di avere mantenuto la loro femminilità negli atteggiamenti, nell’abbigliamento e nel modo di fare».

In Francia il riconoscimento ufficiale dalla FFR giunge nel 1989, due anni dopo in Italia anche per l’imminenza della prima Coppa del Mondo (in Galles le azzurre saranno settime in un torneo a 12 squadre). «Eravamo semplicemente ragazze che amavano profondamente il rugby e un giorno ci dicemmo: perché non provare anche noi a giocare?», spiega Isabella Doria, «per fare qualcosa che ci piaceva dovevamo andare controcorrente e lo facemmo. Di fronte alla cieca ostilità del mondo sportivo maschile, fu una specie di battaglia».

Dopo una lunghissima stagione di piccoli e incerti passi in avanti, la disciplina è esplosa negli anni Duemila. Sul settore la Fir ha cominciato ad investire risorse ed energie, ripagate dalla nascita di sempre nuove squadre e dai risultati della Nazionale.

Le azzurre di oggi sono le figlie putative delle pioniere. In un caso il testimone è stato passato direttamente: Monica e Mario sono i genitori di Veronica Schiavon, numero 10 dell’Italia e precisa calciatrice (foto), mentre la sorella Valentina ha rinunciato all’azzurro per lavoro. Lui è allenatore fra i più vincenti con Red Panthers e Riviera Monica Palla – assieme alla sorella Mafalda – è stata una delle giocatrici di riferimento di Treviso e della prima Nazionale. Involontariamente famosa per essere stata la prima squalificata in Italia, nel 1992 a causa di un pugno nel derby col Vicenza (il comunicato riportava il nome di battesimo, Mansueta, e i giornali ci marciarono).

Le barriere culturali sono finalmente crollate. Nessuno oggi potrebbe affermare che il rugby femminile non è rugby, o interrogarsi ad un convegno medico se si tratti di attività alla quale ammettere le donne. Finite le partite, le azzurre firmano autografi e scattano selfie con i tifosi.

E quella delle rugbiste è anche una sfida a modelli di bellezza tipo Barbie, stereotipati anche nello sport. «Capisco l’appeal delle pallavoliste, ma anche noi siamo delle belle ragazze. Perché si può essere belle in tanti modi. E femmine. Forti, coraggiose, anche dure, senza perdere il nostro fascino», ha dichiarato a Repubblica la manager delle azzurre Maria Cristina Tonna, prima ad avere allenato una squadra maschile, il Cus Siena.

Le donne hanno reso migliore il rugby, per più di un secolo una “riserva maschile” (celebre definizione di Eric Dunning). Oggi grazie anche a loro questo mondo è un po’ meno gretto e retrivo e un po’ più open minded.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

A volte ritornano (al Benetton)

$
0
0

Non è facile mantenere i segreti in una città piccola e chiacchierona come Treviso. Tanto più se i segreti riguardano il rugby, grande passione locale, e suoi protagonisti, magari già ben noti fra il pubblico di Monigo. Nonostante la società abbia finora ufficializzato un solo acquisto, è così ormai di dominio pubblico che il mercato del Benetton per la prossima annata si sia rivolto con attenzione all’usato sicuro.

Il rientro al clan biancoverde di tre giocatori fuoriusciti è già stato definito, manca solamente l’annuncio. Torna Tommaso Iannone, partito nel 2013 per provare a consacrarsi da apertura nelle Zebre; progetto mai condotto a termine, anzi forse neppure mai davvero cominciato: con il numero 10 il trevigiano ha giocato appena 7 partite da titolare la scorsa stagione, tornando quest’anno ad essere impiegato esclusivamente come centro.

Iannone coprirà nel midfield la lacuna lasciata dalla partenza di Michele Campagnaro, destinazione Exeter (mentre la rivista AllRugby, via twitter, parla anche di un’offerta del Toulon per Luca Morisi, reduce peraltro da un ottimo Sei Nazioni). Fermo restando che il Benetton recupererà Alberto Sgarbi dopo il lungo infortunio ai crociati. 

Torna Alberto De Marchi, che ha sofferto nell’ambientamento in Inghilterra (solo 228 minuti giocati con i Sale Sharks in Premiership). Torna Bob Barbieri, per il quale vale un discorso simile (276 minuti con i Leicester Tigers). Un vantaggio per Treviso: le qualità dei tre – e i loro eventuali difetti – sono già note. Svantaggio: se De Marchi e Barbieri andranno ai Mondiali, come probabile, non potranno giocare in maglia Benetton più di una decina di partite nell’arco della stagione.

Il ritorno di Barbieri coinvolge un reparto di seconde e terze linee che verrà giocoforza rivoluzionato. Oltre a Filo Paulo, nella foto, arriveranno i due sudafricani Braam Steyn (Calvisano) e Duncan Naudè (terza serie francese); si è inoltre parlato con insistenza di Jean-François Montauriol, da Rovigo. Smetterà Corniel Van Zyl, che ha 36 anni, mentre Luamanu, Vallejos e Swanepoel hanno reso decisamente sotto all’aspettative della società. Come noto, parte Simone Favaro.

Sul fronte degli emergenti, il pilone sandonatese Filippo Filippetto proverà il salto già riuscito con successo ai compaesani Bacchin e Zanusso. Per quest’ultimo si valuta anche la possibilità di uno spostamento a tallonatore (e intanto si è rivisto in campo Maistri), mentre in prima linea verrebbe confermata la fiducia sul potenziale di crescita di Salesi Manu.

Andranno alle Zebre due dei giovani di maggior rilievo dell’Eccellenza, cioè Marcello Violi e Tommaso Boni, mentre Treviso potrebbe far rientrare dal prestito al Mogliano il trequarti Luca Sperandio.

I giovanissimi, infine. Si dice un gran bene di Roberto Dal Zilio, apertura dell’Italia under 18 di Massimo Brunello, cresciuto a Paese ma già preso in prestito dal Benetton. E si dice benissimo di Nicola Iannone (foto), fratello di Tommaso e figlio dell’ex biancoverde Claudio alias “Caio”, scuola Tarvisium, a sua volta apertura di talento.

E’ già stato aggregato alla prima squadra in questa stagione e lo staff puntava ad inserirlo nella rosa per la prossima stagione. Iannone II°, però, sembra intenzionato a privilegiare gli studi (lo aspetta la Bocconi) rispetto all’avventura nel rugby professionistico.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

E ora Dondi (sì, Dondi!) si allea con il Veneto

$
0
0

L’alleanza elettorale fra Giancarlo Dondi e il Veneto, in opposizione al presidente Fir Alfredo Gavazzi, è nata questa mattina a Piazzola sul Brenta. Una ben strana alleanza: Dondi, ottant’anni il prossimo 19 aprile, è stato il padre-padrone del rugby italiano dal 1996 al 2012, sempre su posizioni decisamente alternative, se non apertamente ostili, alla regione leader del movimento.

Alle scorse elezioni il ticket con Gavazzi, contribuendo al successo del bresciano di superare l’altro candidato, il presidente del Benetton Amerino Zatta (54% contro 39%). A Piazzola era in programma un convegno dalla Fondazione Ghirardi sul tema “Sei Nazioni, i primi 16 anni a confronto”, nel quale Dondi era l’ospite principale avendo traghettato il rugby italiano nell’ingresso del torneo.

A stimolare Dondi sono stati gli interventi in chiave decisamente critica di alcuni dei presidenti veneti che fanno riferimento alla candidatura di opposizione, non ancora ufficializzata ma di cui ha sussurrato più volte il presidente del Comitato Veneto Marzio Innocenti. Hanno parlato, oltre agli stessi Zatta e Innocenti, anche i rappresentanti del Rovigo, del Mogliano e del Petrarca, mentre non figurava fra i presenti la dirigenza del San Donà.

Dondi ha affermato di condividere il disagio dei club veneti rispetto all’attuale gestione, non risparmiando critiche all’ormai ex delfino Gavazzi. Il tam-tam sulla nascita dell’inconsueta alleanza si è immediatamente diffuso in Veneto. Un gesto di avvicinamento di Dondi o un modo per alzare la posta rimanendo nel cartello che intende condurre Gavazzi al secondo mandato? Di certo la sfida elettorale inizia ora ad entrare nel vivo.

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

Viewing all 150 articles
Browse latest View live