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Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
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Dialogo di una notte di mezza estate

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«Certo che sono le due di notte, il bar ha chiuso e noi siamo ancora qua coi soliti discorsi. Rugby rugby rugby. A discutere di Gavazzi e di Parisse, di Innocenti e di Ascione, se servono o no le Accademie, se ci piace o no Haimona».

«Quella, mi pare, piace a tutti».

«HAImona. Kelly Haimona».

«Ah. Sì. Sempre i soliti infiniti discorsi. Ma cosa vuoi, è come una malattia. Cominci da ragazzo, giochi una vita, smetti che ti piange il cuore e allora cominci ad allenare. E’ una passione, non ce ne staccheremo mai».

«Ti dirò, da quando ho smesso io di rugby ne ho visto proprio poco, e soprattutto in televisione. Non mi ci riconosco più, non è più il mio rugby. Mi tengo i ricordi, tanti e bellissimi ricordi. E comunque io giocavo a rugby solo per le donne. Per le feste e per le donne. Io per il rugby, per far festa e per le donne sono andato in capo al mondo».

«Anche in quel campo là c’erano i campioni, i talenti naturali. Tutti gli altri si arrangiavano. Vogliamo parlare di Pierodotto?»

«Numero uno Pierodotto. Leggenda Pierodotto. Esiste una sola donna che abbia detto di no a Pierodotto?»

«Non mi risulta proprio. Sulle avventure di Pierodotto ci sarebbe da scrivere un libro».

«O da farci un film. In altri tempi Pierodotto sarebbe stato come quei playboy della Dolce Vita, di via Veneto, non gli sarebbe resistita neanche Brigitte Bardot. Un personaggio felliniano, da “I vitelloni”. Ma poi invece Pierodotto è anche stato unico, perché è stato il simbolo di un modo di vivere in quegli anni, a Treviso e nel rugby. Quel mio rugby là era un rugby di giorno e di notte, era impensabile senza le feste, le balle, le donne. Era prendersi tutto il bello della vita. Mi dicono che oggi, con il professionismo vero e proprio, sono tutti tanto bravi ragazzi. Morosa fissa e a letto presto. Mi sa che non si divertono come facevamo noi».

«Sai il nostro rugby era quello dei quattro allenamenti a settimana. Con il professionismo è un’altra storia, un impegno del tutto diverso. Mi sa però che si è perso qualcosa in termini di personalità. Ora si preferiscono i soldatini. E i giovani sono tenuti sotto a una cappa di vetro. Anche troppo».

«Ma ti ricordi cosa significava arrivare in prima squadra? Io i vecchi non avevo coraggio neanche di guardarli in faccia. La matricola era fortunato se non finivi in ospedale…»

«Tu credi che io andavo da un Pivetta o da un Tonipiazza a dirgli qualcosa? Ci sono voluti anni».

«Il Pivo… Pensa che l’esordio in prima squadra l’ho fatto contro San Donà. Ingenuo, in uno dei primi raggruppamento vado in fuorigioco, sono in pieno campo loro. Mi arriva uno sberlone sulla coppa, una mano enorme, pesante come un badile. Era Pivetta. Non era neanche incazzato, diciamo che visto che ero giovane voleva “educarmi”. Mi guarda negli occhi e mi dice: “Prossima volta te spaco ‘na gamba”. Chiaro, limpido».

«Già, era tutto molto “educativo”: dovevi conquistarti un posto in squadra, un ruolo nel gruppo, dovevi farti uomo in fretta. Ma dentro a quel gruppo ti sentivi al sicuro. Guai a toccare uno dei nostri, scoppiava l’inferno. Soprattutto in casa, a San Donà, dove non veniva mica a vincere nessuno. Gli avversari andavano a casa segnati, tutti. Altro che le menate sul fair play del rugby…»

«Quelle sono proprio menate. A me hanno sempre insegnato solo che si va in campo per ammazzare l’avversario. Sennò ti ammazza lui».

«Poi ogni tanto a qualcuno gli saltavano i cinque minuti. Gente splendida fuori dal campo, ragazzi d’oro, perfino “studiati”, ma che in partita potevano diventare degli animali. E allora volavano le pappine. Prega Dio non essere nei paraggi se gli saltavano i cinque minuti al Kino. O al Cristo… Eh, non li metteva sotto nessuno».

«Cristo-Cristofoletto? Mai alzato le mani, lui… E’ con gente così, con Giova, con Cristo, che andavi a vincere in casa dell’Inghilterra come abbiamo fatto a Huddersfield, nel ’98. Perché quella partita l’avevamo vinta. E lì davvero cambiavamo la storia. Ma Monsiù Didiè Menè ha annullato quella meta di Tronky e gliel’ha regalata a loro. Erano le qualificazioni mondiali, capisci?, cambiavamo la storia».

«C’è poco da fare, in mischia hai bisogno di quella gente. E’ la regola del 4. Degli otto avanti almeno quattro devono essere dei figli di t***a…»

«Ma in campo è così, devi importi. O sei tu a darle o sarai tu a prenderle. Che poi, ti dirò, alcune delle amicizie più belle sono nate proprio con quelli con cui ci si era menati in campo. Cioè, era come un riconoscersi… Chiedigli a Boccaletto come nacque la sua amicizia con Quaglio. Chiedigli a Galeazzo del compleanno quando venne giù dall’Irlanda Gert Smal. Ti dirò, alla fine di tutto mi è rimasto questo del rugby: gli amici. Come una grande famiglia. I momenti più belli vissuti insieme, e insieme anche quelli brutti. Al funerale di mio papà c’erano tutti, gli amici del rugby. E così senti che non sei solo, che non si tratta solo di farsi la cantata venerdì sera…»

«Che belle però le cantate venerdì sera! La bella furlana / la pianta la fava…»

«… la pianta la fava / la pianta cussì!»

«La pianta cussì!»

«… beh, ora si è proprio fatto tardi. Chi la sente adesso mia moglie. Che veci che semo deventai».

«Veci veci. Anzi facciamo che siamo vintage».

«Buonanotte. E sia lodato Pierodotto».

«Sempre sia lodato».

 

(Liberamente tratto da storie vere).

 

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese

 


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