Quantcast
Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
Viewing all articles
Browse latest Browse all 150

Quando Billy Bush portò a Villorba l’orgoglio maori

$
0
0

Quando si incontra Billy Bush ciò che più colpisce sono le sue enormi mani e soprattutto gli smisurati piedi, un tratto di sproporzione comune nella fisionomia di molti maori e polinesiani. A parte la barba più rada e sbiancata, è forte la somiglianza con le immagini degli anni italiani: Billy è un omone squadrato, legnoso, con ampie spalle e poco collo, una pancia prominente ma solida.

Ci accoglie con un cordiale sorriso nella sua casa di Redwood, un ordinato sobborgo a nord di Christchurch, dove il terremoto ha fatto paura ma lasciato le costruzioni perlopiù intatte. Nel tinello le preziose memorabilia di una carriera lunga e prestigiosa.

Billy stacca dalla parete la foto in bianco e nero di una squadra con la scritta Metalcrom stampata in marcati caratteri sulla maglia, proprio la foto che decine di volte ci hanno mostrato tutti quelli che a Treviso e dintorni ancora oggi si vantano di avere giocato «assieme al grande Billi-Bush» (o contro di lui).

Quasi con lo stesso orgoglio l’uomo che è stato ritenuto fra i più forti piloni della storia degli All Blacks nomina i compagni del Villorba stagione 1980-81, naturalmente con personalissima pronuncia.

«Questi sono i Zizola, tre fratelli, questo è Ieie, questo è Annibal, il più forte di tutti, che poi venne a trovarmi e giocò anche qui a Christchurch, questo suo fratello con cui non andava per niente d’accordo», comincia a ricordare Billy, «Giorgio Troncon, l’allenatore, poi questo è Nerio, matto come un cavallo (il padre di Alessandro Troncon, ndr). Sandor, il dirigente. Caio. La prima sera arrivai all’allenamento in maglietta e braghette, tutti gli altri avevano maglie pesanti, cappello e guanti. Capii subito quanto voi italiani siete freddolosi. E al rientro in spogliatoio trovai un anguilla viva dentro il borsone. Uno scherzo di Ieie, che aveva un allevamento di pesce».

Sull’altra parete un paio di quadri a olio con le calli e le chiese di Venezia, molte foto del Sud Africa e la testa di antilope legata al famoso episodio del 1981, al tempo del contestatissimo tour degli Springboks. «Li affrontavamo a Napier con i New Zealand Maori ed eravamo sopra 12-9 dopo una nostra magnifica partita. All’ultimo minuto la loro apertura Colin Beck calcia un drop che va alto sopra i pali ma abbondantemente fuori. L’arbitro però convalida e gli Springboks fanno 12-12, evitando la sconfitta. Saremmo stati, all’infuori degli All Blacks, l’unica squadra a batterli nel tour. I New Zealand Maori, una squadra interamente fatta di “coloured”, secondo i canoni dei sudafricani».

«Nel 2006 sono stato invitato a Pretoria in occasione dell’anniversario del tour e questa testa di springbok è stato il regalo da parte degli avversari di allora, come una specie di riparazione: il trofeo che ci era stato negato nel clima rovente del 1981. Che quel drop era fuori l’ha ammesso anche Beck in un libro».

L’intera vicenda sportiva e umana di Billy Bush, all’anagrafe William Kingita Te Pohe Bush, è legata alle sue origini maori. Nato nel 1949 a Napier, Hawke’s Bay, una delle capitali della cultura dei nativi, rugbisticamente Bush è invece cresciuto nel Canterbury, la regione più pakeha del paese.

«Arrivai qui a 15 anni. A casa parlavamo maori, ma allora la lingua era bandita a scuola e nei mezzi di comunicazione. Ero un ragazzo grande e grosso e le squadre di rugby mi volevamo con sè. Mi piaceva giocare ma non andare agli allenamenti, avevo mille cose per la testa. Così fino ai 18 anni non combinai nulla di serio, fino a quando decisi di impegnarmi di più».

«Il mio obiettivo era di giocare nel Canterbury Maori, il mio sogno di arrivare un giorno nei New Zealand Maori. In realtà successe che venni convocato prima con gli All Blacks, e solo dopo avere disputato già un paio di partite internazionali potei vestire la maglia che sognavo. Gli All Blacks erano naturalmente una soddisfazione ancora più grande, ma era un traguardo che non avevo mai considerato perchè non mi ritenevo bravo abbastanza. E poi per un ragazzo maori, la squadra erano i New Zealand Maori».

Dall’esordio nel ‘74, Bush giocherà con la maglia nera 37 partite, di cui 12 test. Non darsi mai per vinto: l’ha sempre pensata così, dentro e fuori dal campo. Nei suoi anni da giocatore Bush è sempre un personaggio scomodo, che assume posizioni fuori dal coro per difendere il suo orgoglio maori, talvolta forse anche solo per puro spirito di contraddizione.

«Ricordo il tour in Sud Africa nel 1976. Era evidente che noi maori non eravamo graditi, meglio se accettavamo di entrare nel paese da “honorary whites” come avevano fatto altri prima di noi. Noi rifiutammo, eravamo cinque maori in squadra, fra i quali un giocatore straordinario come Sid Going (gli altri erano Bill Osborne, Kent Lambert e Tane Norton, e con questi ultimi Bush formava una memorabile prima linea, ndr). Non era una sfida o un gesto politico: io volevo semplicemente essere me stesso ed essere chiamato Billy Bush, senza nessuna etichetta di bianco o maori».

«Ogni partita era durissima, soprattutto durante la settimana, contro squadre di club composte da uomini enormi: colpi proibiti, risse, bisognava darle per non prenderle. Ed era chiaro che io ero uno dei bersagli preferiti degli avversari. Gli organizzatori del tour dissero che non era opportuno fare la haka prima dei test contro gli Springboks, che i sudafricani non avrebbero gradito. In spogliatoio dissi a J.J. Stewart, l’allenatore: o facciamo la haka o noi maori torniamo a casa. Era il nostro modo di dire che non accettavamo le cose come stavano in Sud Africa».

Complice un infortunio al pilone Brad Johnstone, futuro ct azzurro, Bush fu la prima scelta nel tour per fronteggiare il potente pack degli Springboks. Gli All Blacks atterrarono in Sud Africa il 30 giugno. La rivolta di Soweto era scoppiata il 16. I neozelandesi (che peraltro da sempre riscuotevano le simpatie dei neri sudafricani) viaggiarono sotto scorta, ignari dell’escalation delle violenze vista anche la morsa della propaganda del regime sui mezzi di comunicazione.

Il rugby era una buon occasione per distogliere il pubblico, o meglio gli afrikaner, dalla tensione sempre più drammatica generata dall’insostenibile sistema dell’apartheid. Il tour del 1976 terminò 3-1 per gli Springboks, che però vinsero il quarto test 15-14 con un arbitraggio molto dubbio ed un calcio di punizione contro Bush per il decisivo sorpasso dei sudafricani. Secondo il racconto di Bryan Williams, alla fine l’arbitro Gert Bezuidenhout addirittura si scusò con i neozelandesi: «Ragazzi, voi domani tornate al caldo di casa vostra, ma io qui ci devo vivere». Su un altro piano, fu quel tour a scatenare il boicottaggio di 33 paesi africani alle Olimpiadi di Montreal, da lì a due mesi. E per ben 16 anni la Nuova Zelanda non farà più visita al Sud Africa.

La carriera di Billy con gli All Blacks si prolungò fino al ’79, con un’appendice di altri tre anni con i New Zealand Maori. «Capiamoci, erano tempi duri. Andava in tour chi poteva permetterselo. Quando la colletta organizzata dal tuo club andava bene. Ma io ad esempio nel ’77 non potei andare in tour in Francia, che significava stare lontani dal lavoro per cinque settimane e ricevere dalla Union un dollaro e 25 al giorno».

Nel 1980 sarà la volta dell’esperienza italiana. Tre stagioni nel Villorba. Bush non è il primo degli All Blacks a giocare nella nostra serie A, c’era stato Ken Carrington nel Casale cinque anni prima. Ma di certo la presenza del pilone si fa notare, non solo per la stazza e per la tecnica ma anche per il look da spaccalegna. Nel campionato italiano i piloni toccavano l’ovale solo in allenamento. Bush correva, portava palla, passava. Segnò pure 4 mete.

In Veneto, fra la gente di rugby, il mito di Billy Bush è anzi ancora vivo. «Era il 1979. Avevamo giocato a Montebelluna una partita organizzata da Vittorio Munari fra Dogi e Cantabrians e per la nebbia ero bloccato da ore all’aeroporto di Venezia. Mi avvicinarono un paio di signori, chiedendomi in un vago inglese il mio numero di telefono. Qualche settimana dopo arrivò l’offerta del Villorba. In pratica potevo giocare la stagione con il Canterbury e poi, durante l’estate neozelandese, quella italiana».

«Imparai la lingua, che ora ho dimenticato. Imparai a sciare, fra i monti bellissimi di Dobbiaco e Cortina. In Italia il livello del gioco era inferiore ma si giocava un rugby pieno di passione, e in questo non era diverso dalla Nuova Zelanda. Prendevo uno stipendio normale, lo stesso che avrei ricevuto lavorando a Christchurch, anzi per un po’ ho anche lavorato con la ditta di Giorgio Bortoletto che stava restaurando le mura storiche di Treviso. Ma i soldi non c’entravano. Era un gran bel modo per vedere il mondo, tra l’altro avevo un visto turistico e ogni tre mesi dovevo espatriare per rinnovarlo».

«Con gli italiani legai subito. Come a noi maori, anche a voi piace cantare. Le due lingue hanno qualche somiglianza, perlomeno nella pronuncia. In pullman tiravo fuori la chitarra e si cantava. I miei compagni, anche se non ne sapevano il significato, avevano pure imparato delle canzoni in lingua maori. Sarò sempre molto fiero di loro. Villorba sarà sempre il mio club».

Chiusa la carriera da giocatore nel 1982 con un deludente tour in Galles dei New Zealand Maori, Bush si è dedicato anima e corpo a quella rappresentativa, di cui è stato selezionatore per oltre un decennio. E non ha mai smesso con le provocazioni. «Nel 2006 dissi che, come nel rugby sudafricano, anche gli All Blacks dovrebbero riservare una quota del 50 per cento ai maori. Ne venne fuori un bel casino. Eppure credo che in campo ne avremmo solo da guadagnarci».

Ma cosa significa essere maori oggi, di fronte ad un così massiccio sforzo di integrazione? «I maori sono sempre nei gradini più bassi della società, ma la Nuova Zelanda è oggi un paese giusto. Potrebbe forse essere meglio, però se guardiamo a come vengono ancora trattati gli aborigeni in Australia allora dobbiamo apprezzare tutto l’impegno dei nostri governi per i maori. C’è rispetto per la lingua e le tradizioni, che ora si insegnano a scuola. Abbiamo maori ormai anche nelle professioni più qualificate. Restano questioni aperte riguardanti il passato, come quelle relative alla revisione del trattato di Waitangi, ma il futuro dei maori in Nuova Zelanda si prospetta sempre migliore».

Presidente per alcuni anni della Canterbury Rugby Union, oggi Bush ha allentato i suoi legami con il rugby.

Ma dedica un po’ di tempo, ogni giorno, al club di origine, il Belfast, una realtà piccola ma impregnata di storia e impegno. Puro grassroots football, rugby di base, di comunità. Abbandonato il league, Sonny Bill Williams scelse il Belfast per giocare la sua prima partita a quindici.

«Il modello professionistico sta uccidendo i club. Vorrebbero un rugby fatto solo di All Blacks, Super 15 e Npc, ma così non funziona e mi sembra che se ne siano accorti anche nelle alte sfere. Senza considerare che un club come Belfast è un punto di riferimento, non solo nello sport. Abbiamo una sala per banchetti da 400 posti, qui ci si sposa, si festeggiano compleanni e battesimi. Non è poco in un’area working class come questa. Se moriranno i piccoli club, gli All Blacks un giorno non avranno più giocatori, e neanche tifosi. Già i praticanti sono oggi appena 120mila, mentre ai miei tempi erano almeno il triplo, e il calcio non sapevamo cosa fosse».

 

Brano tratto da “Meta Nuova Zelanda”, Ediciclo Editore.

“La terra del rugby” è su Facebook: https://www.facebook.com/terradelrugby

Twitter: @elvislucchese


Viewing all articles
Browse latest Browse all 150

Trending Articles