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Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
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Crowley l’allevatore. «Crescere giocatori e allenatori italiani»

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C’è in Kieran Crowley un tratto assolutamente tipico di molti neozelandesi, e cioè un’asciuttezza nei modi e nelle idee, una certa concretezza senza fronzoli. Che significa umiltà e dedizione, etica del lavoro, per altro verso anche parsimonia nei sorrisi e nelle parole, perlomeno al primo contatto. Forse il retaggio di un paese che resta perlopiù rurale, dai ritmi legati all’essenzialità della vita contadina, la Nuova Zelanda profonda fatta di fattoria-famiglia-rugby (più “qualche” birra nel weekend).

Ed è proprio lo stile di cui ha bisogno il Benetton per ripartire, per fare ordine dopo due stagioni non solo disastrose per risultati ma anche scomposte nell’approccio; una via neozelandese che il club aveva deciso di inseguire fin da quando – inverno scorso – aveva corteggiato Pat Lam, poi clamorosamente campione di Pro12 con il Connacht.

«Con tutte le sue competenze e la sua esperienza Crowley è la persona giusta per creare un’adeguata struttura tecnica e avvicinarci alle realtà di alto livello», dice il ds biancoverde Antonio Pavanello, «dobbiamo dargli fiducia e tempo, così come per il lavoro di O’Shea con la Nazionale. Mettiamoci a disposizione, impariamo da allenatori così».

A Treviso intanto è stato allestito lo staff più ampio di sempre: 19 membri fra assistenti, medici, fisioterapisti, preparatori atletici, videoanalyst, più il team manager Enrico Ceccato. E Crowley potrà contare anche su un drone per la ripresa degli allenamenti…

Tdr. Cominciamo dall’inizio. Il suo contatto con un pallone ovale, immaginiamo, avviene da giovanissimo come per ogni neozelandese.

KC. «Da noi giocare a rugby è naturale quanto qui per i bambini giocare a calcio. A Kaponga (località di 200 abitanti nel Taranaki, ndr) la mia famiglia aveva una fattoria con un centinaio di mucche, una piccola fattoria per gli standard della Nuova Zelanda. Io e i miei cinque fratelli giocavamo fin da piccoli, a piedi scalzi, nel cortile di casa. Come altre farm avevamo anche le porte a H, che ho sempre usato per esercitarmi a calciare. Sognavo gli All Blacks, è normale per un bambino neozelandese».

Tdr. Non fosse stato per il rugby, dunque, oggi sarebbe un allevatore.

KC. «Da ragazzo mentre giocavo – eravamo ancora dilettanti – sono sempre stato un farmer. E ho continuato a lavorare nella nostra fattoria anche nei primi anni da allenatore, quando cominciai nel club cittadino e quindi nel Taranaki, la provincia. Poi nel 2008 è iniziata l’esperienza in Canada, ormai professionistica a tutti gli effetti».

Tdr. Oggi dunque è finito ad “allevare” rugbisti. Chi è l’allenatore che l’ha più ispirata, all’inizio?

KC. «Non ho mai avuto un vero modello. Ma è stata importante la figura di Brian Lochore (tecnico degli All Blacks con cui Crowley vinse la Coppa del Mondo 1987, ndr), che era speciale nel relazionarsi con i giocatori. Ci vuole la giusta distanza. Un allenatore deve avere un buon rapporto con i suoi atleti ma non può essere troppo amico, perché poi c’è il momento in cui si devono lanciare messaggi forti».

Tdr. Il migliore allenatore al mondo oggi?

KC. «Difficile da dire. Ma Wayne Smith, che a Treviso conoscete bene, è senz’altro uno dei migliori. Un innovatore, un grande “pensatore” del gioco. Fra i meno conosciuti mi piace molto Neil Barnes, che ha lavorato con me in Canada e ora è ai Chiefs».

Tdr. Meglio Warren Gatland o Joe Schmidt, due neozelandesi che sono pressoché suoi coetanei?

KC. «Dico Schmidt, ma forse sono influenzato dal rapporto di amicizia che mi lega a lui».

Tdr. Cosa le è rimasto della sua prima esperienza italiana, le due stagioni a Parma nell’83/84 e 85/86?

KC. «Giunsi in Italia grazie alla mediazione di Murray Mexted, che aveva dei contatti di lavoro a Parma. La cosa che più mi colpì fu… la cucina italiana. A casa ero abituato a mangiare solo i prodotti della nostra fattoria, la carne e le verdure di stagione. Scoprii improvvisamente che c’era altro: la pasta e molti vostri piatti. E il vino italiano. Fui “adottato” a pranzo e cena dalla famiglia di Alessandro Ghini, il nostro ottimo mediano di mischia. Ci allenava Marco Pulli, che era anche il tecnico della Nazionale, il capitano era Stefano Romagnoli. Non la migliore del campionato, ma eravamo una buona squadra».

Tdr. Arriviamo a Treviso. Allenare una Nazionale, come lei ha fatto negli ultimi otto anni, è molto differente da allenare un club.

KC. «Lo è senz’altro. E la dimensione del club un po’ mi mancava. In Canada il mio lavoro toccava molti campi, dallo sviluppo del rugby nel paese fino alla preparazione della squadra per i pochi incontri della stagione. Torno ora al lavoro quotidiano con i giocatori, in campo, al coaching vero e proprio. Non sarò un director of rugby, ma a tutti gli effetti il capo allenatore, il responsabile di uno staff tecnico. Resta il fatto che in entrambi i casi, club o Nazionale, la programmazione di una stagione risulta un aspetto decisivo».

Tdr. Lei ha un contratto con il Benetton per due stagioni. Quale obiettivo a lungo termine si propone?

KC. «Il giorno in cui andrò via vorrei avere la certezza di lasciare un ambiente migliore di quello trovato, cresciuto. Si tratta insomma di migliorare giorno dopo giorno. L’obiettivo è anche dare una struttura di gioco, un’identità a questa squadra. E l’obiettivo è anche sviluppare sia giocatori che allenatori italiani, per il bene di tutto il nostro rugby».

Tdr. I suoi tre assistenti – Galon, Bortolami, Ongaro – sono in effetti italiani, ma alla loro prima esperienza a questo livello. Rischioso?

KC. «Forse sì, come sempre quando si parla di giovani. Ma i giovani dalla loro hanno l’entusiasmo e la voglia. Cresceranno attraverso le esperienze. Era giusto offrire loro un’opportunità. Prendiamo Ezio Galon. Ha fatto un buon lavoro a Mogliano, dove dovrebbe fare un passo in avanti nel suo percorso se non a Treviso in Pro12? E quando dovremmo dargli questa chance, se non ora? Al di là dei ruoli specifici, tutti saranno impegnati anche negli altri settori e saranno coinvolti nel processo decisionale».

Tdr. Non c’è nel suo staff un allenatore specifico per le skills, la tecnica individuale, come fu in passato Martin Field-Dodgson. Ed è opinione comune che in questo i giocatori italiani siano piuttosto carenti.

KC. «Sulle skills lavoreremo a fondo, e ogni giorno. Siamo cinque allenatori e tutti ce ne occuperemo. Non trovo che i giocatori italiani accusino un ritardo, le loro abilità sono buone, anche se ci sono aspetti da migliorare come ad esempio la ricezione del pallone. Intendiamoci, anche in Nuova Zelanda e anche a livello di All Blacks l’impegno nelle skills è quotidiano. Sbaglia chi pensa il contrario».

Tdr. E’ invece aumentato il numero dei videoanalyst (da 1 a 2). Lei è il tipo di allenatore che crede nella tecnologia?

KC. «Per un allenatore oggi la tecnologia è uno strumento straordinario. Certo, non bisogna farsi travolgere ne’ dimenticare che il rugby rimane comunque quel gioco semplice in cui si deve portare la palla nel campo avversario. Non credo molto nei numeri, nelle statistiche. Credo invece che la videoanalisi, in egual misura delle partite e degli allenamenti, sia importantissima. Rivedere per comprendere gli errori e correggere».

 

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Twitter: @elvislucchese


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