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Channel: Elvis Lucchese – La Terra del Rugby – Veneto blog
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Rovigo dice addio a Bernard Thomas, genio e sregolatezza dello scudetto 1976

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La notizia della scomparsa di Bernard Thomas tocca la Rovigo del rugby, dove il gallese fu protagonista dello scudetto del 1976. Thomas è morto a 62 anni nella sua Llanelli, storica capitale della palla ovale ed incredibile fucina di talenti.

Dotato di una grande eleganza tecnica, unita ad un temperamento anticonformista e poco incline alla disciplina, quando giunse in Italia per vestire la maglia della Sanson Thomas si impose immediatamente come uno dei migliori stranieri mai visti nel nostro campionato, dividendo al contempo il popolo rossoblù fra ammiratori e detrattori.

Esordiente nel Llanelli a soli 18 anni e  Barbarian a soli 20, in patria si era ritrovato chiuso come apertura dalla compresenza di due straordinari numeri 10 come Barry John e Phil Bennett.

Nel 1975/76 a Rovigo Thomas fu artefice dello scudetto, mentre nella stagione seguente i rossoblù cedettero il titolo al Petrarca dopo il tragico spareggio di Udine. Quell’anno l’arrivo del leggendario Carwyn James consolidò ulteriormente il legame fra Llanelli e Rovigo, due cittadine follemente innamorate del rugby.


Il bello del primo Benetton a Monigo (con il nodo della preparazione atletica)

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Fra i tifosi biancoverdi c’era molta curiosità (e pure qualche scetticismo) attorno all’esordio stagionale a Monigo del Benetton, una squadra nel pieno della rifondazione e apparsa nelle amichevoli estive ancora un cantiere aperto. Il match contro il Munster, perso 10-21, ha confermato che di cantiere si tratta. Ne è pienamente consapevole anche il club. «Avremo un’identità definita solo da metà ottobre in poi», aveva messo in guardia fin dalla vigilia il presidente Amerino Zatta.

Ma le note promettenti sono più d’una. Fra i volti nuovi, è risultata una piacevole sorpresa la prova di Simone Ragusi, andato anche in meta proprio sotto gli occhi del compagno Lucchese (si vede nella foto da benettonrugby.it). L’estremo milanese, la scorsa stagione a Rovigo in Eccellenza, ha avuto qualche difficoltà nei palloni alti ma nel complesso si è dimostrato all’altezza del salto di categoria.

A guadagnare gli applausi dei 3.500 tifosi biancoverdi, oltre alla meta, è stata una mischia alla mezz’ora del primo tempo, quando la prima linea del Munster è stata costretta a “stappare” e a concedere il calcio di punizione al Benetton.

Una bella iniezione di fiducia per un reparto rivoluzionato. Sulla mischia ha lavorato in precampionato Vittorio Munari mentre ora del compito di assistente-allenatore è incaricato Franco Sbaraglini. Ma “Trompis”, bloccato per accertamenti per una lesione alle vertebre, confida sempre di poter tornare in campo.

Meritato il riconoscimento di man of the match a Matteo Muccignat (sottotitolo da film di Elio Petri: la classe operaia va in paradiso). Il simpatico pilone pordenonese ne era giustamente soddisfatto, sabato sera in casetta. “Mucci” è al Benetton da tredici stagioni fra juniores e prima squadra, ma nei quattro anni di Pro12 aveva giocato solo 14 partite da titolare guadagnando solo nella scorsa stagione un minutaggio regolare. Cresciuto in silenzio, con grande forza di volontà e spirito di sacrificio, quest’anno  potrebbe rivelarsi un “acquisto” importante per Treviso. E non è detto che in futuro non venga impiegato anche a destra.

Ma il man of the match sarebbe potuto andare pure a Riccardo, il tifoso che ha passeggiato per la tribuna con il cartello “Sto per sposarmi” raccogliendo ingiurie e sfottò. Ha fatto divertire Monigo, oltre ai compagni che si scaldavano per l’addio al celibato.

Umberto Casellato in conferenza-stampa ha anche voluto sottolineare l’apporto di Corniel Van Zyl. «La nostra meta è nata da una giocata da rimessa voluta da Corniel, studiando in settimana i video della difesa irlandese», ha detto l’allenatore, «lo ringrazio il contributo in campo, dobbiamo amministrarlo e doveva giocare solo 30 minuti, poi ha stretto i denti per tutta la partita».

Van Zyl, che compierà 35 anni il prossimo 27 gennaio, oggi è anche il tecnico delle touche nello staff biancoverde. Dopo l’intervento all’anca dell’esatta 2013 lui stesso aveva parlato di un imminente ritiro. In questa stagione invece eccolo di nuovo sull’erba di Monigo. «Anca è vecchia, testa è giovane», sintetizza con il tipico accento il sudafricano, capitano venerdì.

Pronto al rientro già da sabato a Llanelli c’è comunque Antonio Pavanello. La nota dolente arriva proprio dalla condizione fisica della squadra, che contro il Munster è apparsa ancora nettamente “imballata”, priva di reattività. E intanto alla seconda giornata il Benetton si ritrova già con una quindicina di giocatori indisponibili a causa spesso di problemi muscolari. O si organizza una gita a Lourdes, città peraltro di gloriosa tradizione rugbistica, oppure si considera seriamente il fattore della preparazione atletica.

La scorsa stagione vide i biancoverdi finire il torneo in evidente condizione di stanchezza ed a pagare fu Fabio Benvenuto, veterano a Treviso. Il responsabile della preparazione atletica del Benetton è ora l’ex tallonatore di Calvisano e Treviso Giorgio Intoppa, il cui credo è il lavoro durissimo in palestra. Casellato ha comunque chiarito nel dopopartita: «No, non siamo freschissimi sul piano atletico ma praticamente siamo in pre-season, il Munster mi è parso più o meno nello stesso stato di forma. La condizione è quelle di squadre che sanno di avere ancora sette mesi di partite davanti, stiamo comunque diminuendo i carichi di lavoro».

Jud Arthur dal rugby alla lirica. Passando per Mirano

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Il volto di Jud Arthur, lineamenti forti e sguardo intenso, è quello di una immagine celebre fra la gente della palla ovale veneta, firmata dal decano dei nostri fotografi di rugby, Piero Rinaldi. Il fango ricopre interamente la testa del neozelandese, uno che non si tirava mai indietro in una squadra di provincia – il Mirano – che poi proprio non faceva sconti.

Tanta la forza evocativa della foto che il volto di Arthur è divenuto la copertina del libro che in occasione del cinquantenario ha raccontato la storia del club bianconero, “Una piazza ovale” di Simone Battaggia e Vanni Favorido.

Dal fango dei campi da rugby all’atmosfera del teatro d’opera il passaggio non è certo immediato. Eppure è questa la storia dell’ex terza linea che nel 1983 approdò all’allora Blue Dawn del presidente Enzo Rampazzo, proveniente dalla fattoria di famiglia nel lontano e primordiale Otago, la regione più meridionale della Nuova Zelanda già agli antipodi dell’Italia. Stasera Arthur, basso-baritono, è nel ruolo di Commendatore nella prima del Don Giovanni di Mozart sulla scena dell’Opera di Auckland, nuova tappa di una carriera in crescendo consumata finora soprattutto in Australia e in cui l’esperienza dei due anni a Mirano è risultata decisiva. «Conoscere la lingua italiana è un enorme vantaggio per un cantante lirico», sottolinea.

Nello sport il giovane Arthur era un talento naturale. Rugby come tutti i ragazzi kiwis, ma non solo: è campione nazionale junior di equitazione nel salto ad ostacoli e per alcune stagioni anche giocatore professionista di basket. E’ un ragazzo poco più che ventenne quando arriva in Italia. A Mirano gli trovano lavoro in un maneggio, dove può far valere quanto imparato nella sua esperienza di farm boy tipicamente neozelandese.

Nel rugby italiano l’ingaggio dello straniero (uno e uno solo permesso) era allora ancor più una lotteria. L’eventualità di pescare dei bidoni era concreta. Non così Jud Deane Arthur, che con la maglia di Mirano si rivelò immediatamente un iradiddio.

jud arthur mirano jud arthur favaro Jud Arthur rehearses for Ride the Rhythmn at Forsyth Barr Stadium yesterday. jud_arthur_performs_the_national_anthem_at_carisbr_4d9871152f arthur-rinaldi Arthuropera2

Il neozelandese trascina il Blue Dawn allenato da Patrizio Piloti alla prima storica promozione in serie A ed è protagonista anche nella stagione 1984-85, quando i bianconeri sono capaci di lottare alla pari contro le big. E’ la squadra di Roberto Favaro, futuro azzurro, di Paolo Lazzarini, che giocherà una vita, delle bandiere Maurizio Cecchinato e Marco Franceschin, del piede velenoso di Massimo Cappellari.E’ nell’incontro casalingo contro la Young Club Roma, il 16 dicembre, che Rinaldi scatta il ritratto di Arthur nel fango. La stagione finisce però nel modo peggiore, per il neozelandese che si infortuna gravemente a Padova e per il Mirano che rocambolescamente retrocede. Arthur tornerà nel 1988-89 per giocare una terza stagione nelle file bianconere sotto la guida di Pasquale Presutti.

«Più che al canto, allora ero interessato al rugby, alla pizza e… alle ragazze», ha raccontato il neozelandese in “Una piazza ovale”, «nel cuore mi è rimasta l’accoglienza della famiglia di Mirano. Ero un giovane straniero immerso in una cultura totalmente differente e il calore degli italiani ha cambiato la mia mentalità. Il livello di gioco non era alto ma abbiamo fatto dei buoni campionati. Credo che ci siamo aiutati a vicenda: il ho portato il mio rugby, Mirano mi ha aperto alla vita».

La promettente vita sportiva di Arthur finisce a 27 anni, quando lo tradiscono i legamenti del ginocchio. Comincia allora il viaggio nel mondo della lirica. «Non potevo muovermi, ero bloccato in casa. Così decisi di prendere lezioni di canto».

Con l’ingaggio all’Opera di Sydney nel 2003 il salto di qualità professionale, in attesa un giorno dell’approdo ai grandi teatri europei e americani. Ed intanto, come era forse inevitabile, viene spesso chiamato ad esibirsi nell’inno neozelandese prima delle partite degli All Blacks.

«C’è una cosa che il rugby e la lirica hanno sicuramente in comune: la necessità di prepararsi con costanza e serietà per ottenere alla fine una buona performance sul campo o sul palcoscenico», ha spiegato Arthur in una recente intervista alla televisione neozelandese, «fin da bambino lo sport mi ha insegnato ad impegnarmi al 100% in ciò che faccio e continuo a farlo nello studio del canto».

Kino, Nacho e il modello Mogliano

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«Rovinano i campi». Da sempre è stata questa l’accusa rivolta ai rugbisti dai calciatori. Cioè dagli «sbaoneri» (o «baoneri»), perché nel mondo della palla ovale così vengono chiamati praticanti e fedeli del massimo sport italiano: un modo anche un po’ snob per affermare la propria diversità rispetto al carattere di massa, nazionalpopolare, del calcio.

Fieramente rivali, in Veneto le due discipline si sono finora al massimo tollerate. La caduta del muro doveva accadere a Mogliano dove, grazie a dirigenti sensibili, pallone rotondo e ovale hanno stretto un rapporto di collaborazione e ancor prima di amicizia.

La conferma nel clima attorno alla presentazione stagionale dei biancoblù di Eccellenza e dell’Union Pro di serie D, con cui i due club hanno proposto l’iniziativa del biglietto in comune, tipo paghi-uno-tifi-due: chi va a vedere il calcio ottiene un tagliando gratuito per il rugby, e viceversa.

Ma in comune le due società anche una visione strategica, fatta di programmazione a lungo termine ed occhio attento ai bilanci. Dal capitano dei rugbisti Andrea Ceccato la promessa di andare quanto prima a tifare per i sbaoneri della Union Pro al campo delle Generali, visto anche che la carriera sportiva di “Giostre” cominciò proprio nel calcio. Diversa la storia di Franco Properzi, alias “Franchino” o “Kino” (foto Corrado Villarà). «Da ragazzo avevo cominciato a giocare a calcio ma alla prima partitella in allenamento ruppi una gamba a un compagno, l’allenatore mi mise una mano sulla spalla e mi disse: per te è meglio il rugby».

Una fortuna per la palla ovale italiana, che ne guadagnò un pilone fra i più potenti e tecnici di sempre ed oggi un allenatore competente ed aggiornato. In un Mogliano che pure si è rinnovato molto di stagione in stagione, dal suo arrivo nel 2010 Properzi è rimasto comunque il riferimento dell’ambiente. Tecnico informatico, padre di tre rugbisti tutti tesserati con il Paese, più volte ha parlato dell’esigenza di un anno sabbatico. Troppo forte, però, la passione.

Anche quest’anno Kino è alla guida dei biancoblù, in coppia con Ezio Galon che è passato dal ruolo di giocatore alla guida tecnica. «Rovigo e Calvisano hanno sicuramente qualcosa in più di noi e di tutti gli altri», dice Properzi, cauto sulla stagione che sta per cominciare, «noi abbiamo cambiato molto, in avvio di torneo avremo di certo qualche problema di amalgama».
I risultati parlano comunque di due semifinali e uno scudetto negli ultimi tre anni, mentre dalle squadre giovanili arrivano continue soddisfazioni (vedi Trofeo Topolino): Mogliano non più una sorpresa ma ormai un club-modello nel panorama italiano, autore di un semiprofessionismo molto professionale che vede ogni dettaglio curato con attenzione.

Oltre ad esprimere l’idea di gioco forse più interessante e moderna dell’Eccellenza, la squadra ad esempio è sempre giunta nella migliore forma atletica alle partite che contano, in primavera. Evidente la qualità del lavoro del confermato preparatore Giorgio Da Lozzo.

Nella rosa del Mogliano 2014/2015 ancora un’ampia manciata di giovani. Sono tredici i nati fra il ’93 al ’96, tutti transitati nel giro della Nazionale under 20 di Alessandro Troncon. Di 23 e 24 anni anche i due nuovi stranieri, il sudafricano Van Zyl e il francese Aristide Barraud al quale andranno i compiti di regia. Skills raffinatissime e velocità, ma fino a pochi mesi fa a Piacenza in serie A.  I biancoblù hanno perso diversi dei giocatori ai quali il pubblico del Quaggia si era affezionato: da “Dado” Candiago, Costa Repetto e Meggetto a Pavanello, Fadalti, Gianesini e Cornwell, fino ai sei che sono saliti di categoria con il passaggio in Pro12 (Lucchese, Lazzaroni, Barbini, Bacchin, Padovani e Swanepoel).

Il contributo di esperienza arriverà soprattutto dagli elementi fuoriusciti loro malgrado da Treviso. Mogliano ha sempre sfruttato il privilegio geografico di trovarsi nel cuore del Veneto, dove i giocatori di qualità abbondano. “Mozzarella” Semenzato e Filippucci rientrano in Eccellenza con quattro anni “celtici” sulle spalle, a dare consistenza a seconda e terza linea ci sono anche Van Vuren dal Zebre e Saccardo da Prato.

Ma il più esperto di tutto il gruppo è Ignacio Fernandez Rouyet, pilone classe ’78 da Buenos Aires ma ormai italiano d’adozione per sport e per amore. «Ho 35 anni ma ancora tanta voglia, poi c’è l’esempio del mio amico Chango (Carlos Nieto, ndr) che nei Saracens ha spinto in mischia fino quasi ai quaranta», racconta “Nacho”, a conferma di una mentalità sempre positiva, «naturalmente non è più come una volta, come quando ero un ragazzo e nel mio club in Argentina, il Lomas, giocavo una partita il sabato con la giovanile e una domenica con la prima squadra. Adesso è importante anche gestire i carichi di lavoro, i tempi di recupero. Però nella scorsa stagione fra Pro12 ed Heineken Cup ho comunque giocato 800 minuti, non proprio pochi».

Per il Mogliano esordio contro il San Donà in casa… ma a Rovigo, che domenica 5 ottobre ospita il Derby Day veneto. E la settimana seguente arriverà Wayne Smith. Mica una lusso da poco, per una “provinciale”, poter contare sulla consulenza tecnica dell’allenatore degli All Blacks campioni del mondo…

Come Casale sul Sile ispirò il capolavoro del teatro neozelandese

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Rappresentato per la prima volta nel 1980 e ritenuto la prima opera teatrale autenticamente nazionale, “Foreskin’s Lament” divenne un caso di forza dirompente nella Nuova Zelanda del tempo, allora una società alla periferia geografica e culturale del mondo e dal carattere ancora orgogliosamente rurale. La pièce lanciò la carriera del suo giovane autore, Greg McGee, affermatosi nel tempo come scrittore e sceneggiatore ed oggi figura intellettuale fra le più stimate del paese.

Foreskin’s Lament è ambientato nello spogliatoio di una squadra di rugby e mette in scena il contrasto fra i valori conservatori della Nuova Zelanda profonda (che nella rudezza e nel machismo del rugby trovavano legittimazione) e il desiderio di rinnovamento e di apertura al mondo dei giovani universitari: semplificando, il conflitto generazionale del ’68 europeo che approdava con onda lunga nelle lontane isole del Pacifico.

Con l’opera di McGee nei teatri, nel 1981 scoppia la vicenda che divide la società neozelandese e ne segna definitivamente la storia. C’entra nuovamente il rugby, poiché la scintilla delle proteste è il tour degli Springboks, la Nazionale alfiere dell’apartheid sudafricano. Sullo sfondo la lotta per i diritti civili dei maori. McGee, rugbista di buon livello ma impegnato fra gli attivisti anti-tour, compie un gesto quasi sacrilego come bruciare la maglia degli All Blacks. I sudafricani disputeranno le principali partite previste, ma in un clima di tensione che la Nuova Zelanda non aveva mai conosciuto.

A fornire a McGee materiale e ispirazione per la pièce d’esordio non poteva che essere la sua vita sportiva. Ed ecco che entra in scena Casale sul Sile e i suoi Caimani, nelle file dei quali il neozelandese aveva disputato la stagione 1976/77 in serie A, culminata con una miracolosa salvezza agli spareggi. Un’esperienza italiana controversa ma raccontata con sentito affetto da McGee nell’autobiografico “Tall Tales (Some True)”, che peraltro vede in copertina una foto storica dell’autore in maglia Gasparello assieme a Raffaello “Rifi” Bottazzo e Flavio Favotto.

«Arrivare a Casale nel 1976 fu, per certi versi, come arrivare a casa», ci spiega da Auckland McGee, che recentemente ha firmato un best-seller mondiale, l’appassionante biografia del capitano degli All Blacks Richie McCaw, oltre a gialli di successo in patria con lo pseudonimo Alix Bosco, «sono nato e cresciuto a Oamaru, una cittadina dell’Isola del Sud che ho lasciato a 17 anni per andare all’Università di Otago a Dunedin. L’unico rugby che avevo conosciuto da adulto era stato quello della squadra dell’Università, che a quel tempo era eterogenea e piuttosto “radicale” per la realtà neozelandese. Io ero un anticonformista e portavo i capelli lunghi, ma questo non mi impedì di divenire comunque il capitano di Otago. La squadra insomma non somigliava a quella del club di Oamaru dove avevo giocato, ne’ tantomeno a quella squadra di una piccola città che è al centro di Foreskin’s Lament. Il Gasparello Casale era invece molto più la squadra della mia opera teatrale rispetto alle altre nelle quali avevo giocato da adulto. Non avevo conosciuto un’altra realtà in cui il paese avesse una squadra e in cui i risultati della squadra fossero così importanti per l’intero paese».

«Avevo promesso che sarei passato da Casale per salutare prima di lasciare l’Europa, così nel 1978 tornai da Londra e ci fu un’enorme festa nel bar di Piero (Pietro Cappelletto, ndr), che mi lasciò stordito dalla sbronza e con il bisogno di riposare un po’. Andai in Sardegna in un paesino chiamato Fertilia dove i pescatori, emigrati al tempo di Mussolini, cantavano ancora canzoni veneziane che riconoscevo. Lì cominciai a scrivere Foreskin’s Lament, con l’esperienza di Casale ancora forte dentro di me. E stavo pensando a Casale scrivendo uno dei passaggi fondamentali dell’opera, quando l’allenatore dice a Foreskin, “The town is the team!”, la città è la squadra!»

Senso di appartenenza e desiderio di riscatto della provincia, quindi: la forza dello sport della palla ovale anche in Veneto, soprattutto nei piccoli centri. McGee parla della scoperta di un linguaggio universale. «Ad affascinarmi molto fu il fatto che le dinamiche interne di una squadra di rugby fossero simili indipendentemente da quale angolo del mondo ci si trovasse. I piloni sono piloni, fisicamente e psicologicamente, siano italiani o neozelandesi; quelli che giocano ala credono sempre di essere belli; i mediani di mischia sono dei piccolini sfacciati che parlano troppo, le aperture si considerano super cool… Fu incredibile per me viaggiare dall’altra parte della terra e scoprire così tante cose che mi erano familiari, e che avrei potuto usare nella mia opera».

Il locale dei Cappelletto su via Trento e Trieste, luogo di ritrovo per giocatori e appassionati, resta un punto di riferimento anche per i molti neozelandesi – alcuni dall’illustre pedigree – che hanno vestito la maglia del Casale. E in occasione dei viaggi italiani McGee non manca di passare per il bar per un saluto.

«Le esperienze di Casale fanno parte di me. Gli anni Settanta erano una stagione molto politica in Italia e da questo punto di vista ero forse più naïf di quanto avrei dovuto essere a 25 anni. Ho imparato molto e ricordo sempre i miei amici da “lassù”. Il mio ultimo romanzo, “The Antipodeans”, parla di italiani e neozelandesi, gente da due estremi opposti del mondo che però hanno molte cose in comune».

Rovigo si sblocca a Tbilisi. Il rugby italiano ringrazia

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Con il lutto al braccio in memoria dei quattro morti nella tragedia di Adria, la Femi-Cz Rovigo compie l’impresa di espugnare il campo dei Tbilisi Caucasians qualificandosi così alla Challenge Cup (Cardiff Blues, London Irish e Grenoble i futuri avversari dei rossoblù).

E’ stato il match ruvidissimo che ci si attendeva, con i Bersaglieri penalizzati da due gialli contro uno dei georgiani. Ma è stato anche l’esame di maturità superato da Ferro e compagni, capaci di condurre fin dai primi minuti e di gestire un infuocato finale sigillato dal drop definitivo di Stefan Basson: 24-21 il finale. Si partiva dal 22-18 dell’andata (e dall’equivoco sul punteggio adottato…), ma si tratta comunque di una vittoria importantissima.

Sì, doppiamente importante. In primo luogo per la Femi-Cz, una squadra che ha perso diverse finali nei tempi recenti e che aveva bisogno di dimostrare – soprattutto a se stessa – la capacità di reggere le pressioni nei momenti topici. L’impresa di Tbilisi è il miglior viatico per l’Eccellenza che scatta il 5 ottobre con il solito obiettivo dello scudetto.

Ma la qualificazione è importante anche per il rugby italiano, in piena crisi di credibilità sugli scenari internazionali. Nello stesso giorno in cui le Zebre battono, pur rocambolescamente, l’Ulster, il presidente della Fir Alfredo Gavazzi dovrebbe questa volta dire grazie a Rovigo…

La saga del derby Rovigo-Petrarca. Immagini da quel formidabile 1977

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Domenica prossima si disputerà dunque la sfida numero 153 fra Rovigo e Petrarca: oltre che la partita più volte giocata fra due club, anche la più sentita del nostro rugby, il vero derby d’Italia. Insomma, el Clásico de noantri. Una saga che dura da 65 anni (il 17 ottobre 1949 il primo confronto in serie A) e che continua oggi seppur con l’appannamento delle passioni dettato dal mutare dei tempi, nello sport e nella società. L’iniziativa del Derby Day, voluta del Comitato Regionale Veneto, resta comunque un modo interessante per guardare alla tradizione reinventandola al presente.

Il culmine della saga, per interesse ed atmosfera, si verificò a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Il derby a Padova del 1977, anzi, rimane l’incontro di campionato con il maggior numero di spettatori sugli spalti. I 18mila dell’Appiani – incasso attorno ai 20 milioni di lire – restano un record ineguagliato. Ma cosa sia stato quel formidabile 1977 lo raccontano molto meglio le immagini, ora disponibili grazie al dvd “Petrarca Padova. La storia”, pregevole lavoro del club bianconero curato da Stefano Balbo e Federico Fusetti.

Clicca qui per vedere il video incorporato.

“Una giornata trionfale”. Così titolò allora il decano di tutti i giornalisti di rugby Luciano Ravagnani in un commento per la rivista All Rugby, risultando profetico: “Il 15 maggio sarà una giornata irripetibile. L’Appiani è esploso di entusiasmo e di passione. Non c’è stata soltanto la lezione del Petrarca alla Sanson, in risposta alla lezione che la Sanson all’andata aveva dato al Petrarca, ma c’è stata soprattutto una impagabile lezione di rugby”.

Foto e tabellini sulla pagina fb del blog: https://www.facebook.com/terradelrugby

Sos Italia, Dominguez: «Ripartire dai club e dai fondamentali»

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Per una settimana Diego Dominguez scende in campo come allenatore, spostandosi in varie località del Veneto per stage con i giovani delle selezioni del Comitato Regionale. Il suo carisma, a dieci anni dal ritiro, rimane intatto: fra la gente di rugby il numero 10 di Cordoba è accolto sempre come una stella, quale in effetti è stato in Italia ma anche oltre le Alpi (lo Stade Français con i suoi calci portò a Parigi quattro Bouclier de Brennus).

Dominguez ricambia con la sua inesauribile disponibilità e con una esemplare voglia di vestire ancora tuta e scarpe tacchettate, per respirare l’atmosfera del campo e trasmettere le sue esperienze. Visita spesso i club, anche i più isolati, in questi giorni la stessa consulenza per il Comitato Regionale Veneto è volontariato puro. Perché lo fa? «Dal rugby ho ricevuto molto, in Argentina, in Italia, in Francia», spiega, «oggi sento il bisogno di restituire qualcosa a mia volta. Soprattutto al rugby italiano, che quando avevo 19 anni mi ha aperto le porte, mi ha regalato una possibilità per diventare professionista e confrontarmi ad alto livello».

Dominguez parla nella club-house del Rugby Riviera. Prima squadra in serie C, tanto lavoro con le giovanili e le scuole, presidente e responsabile tecnica con tanta esperienza di campo come Flavio Lupato e Samanta Botter: uno dei tanti piccoli club sul territorio, dove anonimi eroi del quotidiano permettono a circa duecento ragazzi di praticare sport, colmando una drammatica lacuna della scuola italiana.

Poca gloria, tutta sostanza, siamo a Mira ma l’esempio vale per ogni altra realtà di base. E di fronte alla crisi di risultati del rugby italiano, Dominguez indica il punto di rilancio proprio nei club.

«Vedere perdere la Nazionale mi fa molto male, credo che il movimento abbia bisogno di una netta rottura con quanto fatto finora, di una vera rivoluzione culturale», dice l’ex apertura, forse il miglior azzurro di tutti i tempi e a tutt’oggi quinto marcatore del rugby mondiale con 1010 punti, «dal mio ritiro nel 2004 il sistema delle Accademie non ha prodotto un solo fuoriclasse, i migliori non vi sono passati e altri, come Parisse, sono stati formati in Argentina. Bisogna rimettere i club al centro del movimento, dotarli di strutture adeguate, tornare al senso di appartenenza. L’Italia ha ricche risorse economiche che riceve dall’International Board, ma vanno gestite per far crescere la base. Attenzione, se non si cambia nel giro di pochi anni non solo l’Argentina ma con i progressi attuali anche il Giappone e la Georgia saranno irraggiungibili».

Sullo sfondo si staglia uno dei dibattiti cruciali del rugby italiano di oggi, quello che divide su Accademie e Centri di Formazione voluti dalla Fir e su un monopolio della formazione degli atleti che di fatto esautora il ruolo delle società (costando peraltro più di 5 milioni di euro a stagione).

Dominguez lavora in questi giorni giorni proprio assieme a ragazzi che non rientrano nel percorso “accademico”, sposando l’idea di Marzio Innocenti. Un progetto «alternativo ma non contrario rispetto alla linea tecnica della Fir, con la quale c’è un confronto sereno», precisa il presidente del CRV, «se i Centri di Formazione posso essere efficaci in determinate aree geografiche, il modello va invece valutato diversamente in Veneto che ha una sua specificità rispetto al resto dell’Italia. Troppi i giocatori che già a livello di under 18 sono definitivamente esclusi dall’alto livello».

Il nocciolo del problema è la qualità dei tecnici, dunque la qualità dell’insegnamento. Opinione diffusa fra i dirigenti di club e confermata da Dominguez, che è stato da giocatore un modello di abilità tecniche e di intelligenza a fronte di una taglia fisica da peso welter (e 1,73 di altezza). «A livello giovanile si dovrebbe ritornare ad insegnare con cura i fondamentali, e dovrebbero farlo allenatori competenti. Fino a 15 anni il lavoro deve essere solo sulle skills individuali. E le cose essenziali sul rugby si imparano dentro il club, che deve essere di riferimento nella crescita fino alla prima squadra».

Cittadino del mondo, Dominguez ha scelto intanto la Nuova Zelanda per il completamento del percorso di formazione del figlio Piero (nella foto), mediano di mischia da quest’anno in forza a College Rifles, prestigioso club di Auckland«Un giorno mi ha detto: voglio provare a diventare un rugbista professionista. Abbiamo parlato di quale splendida esperienza possa essere ma soprattutto dei molti sacrifici che comporta. Per arrivare in alto ci vuole lavoro quotidiano, ci vogliono testa e palle. Perché la Nuova Zelanda? Perché vi si gioca un rugby di altissimo livello e soprattutto perché la competizione per emergere è durissima fin dal livello giovanile. Senza dimenticare lo studio, comunque: fra poco Piero comincerà l’università ad Auckland».

 


“Ciano” Luise ha passato la palla

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E’ scomparso questa notte, a 87 anni, Luigi Luise, gloria del Petrarca e della Nazionale azzurra negli anni Cinquanta. Ne ha dato notizia la società padovana, alla quale Luise è rimasto legato per tutta la sua vita.

Luise, noto da tutti con il soprannome di “Ciano”, iniziò a giocare a rugby nel 1946 aderendo all’A.R. Padova, club precursore del Petrarca. Il suo nome figura nel tabellino della primissima partita disputata dal club dell’Antonianum.

Terza linea, divenne presto uno dei giocatori-chiave della squadra padovana, approdando in Nazionale nel 1955. Il 16 aprile di quell’anno fu nelle file della Selezione azzurra che, prima squadra italiana della storia, scese in campo a Twickenham contro London Counties.

“Alla scuola del Petrarca il Ciano imparò due cose essenziali. Il placcaggio classico, irresistibile, devastante, al quale non si sfugge in nessun modo. Il placcaggio fatto con tutto sé stesso, spalla alle reni dell’avversario, testa dietro il suo fondoschiena, braccia che serrano le gambe in una morsa che non si apre più. E poi la furbizia dell’intercetto, del recupero, dell’arte di infilarsi a tutta forza nel varco appena intravisto”, ha scritto di lui il compagno di squadra Lando Cosi in “Piccolo, grande rugby antico”.

Maggiore di tre fratelli rugbisti, divenne noto nei tabellini del tempo come Luise I per distinguerlo da Renato e Roberto. Dopo una breve esperienza nel XIII e conclusa la carriera di giocatore, negli anni Settanta fu a lungo allenatore del Mirano, contribuendo in modo decisivo alla crescita del club.

Nella foto con la maglia della Nazionale è il terzo da sinistra, assieme  a Comin, Silini, Taveggia e Danieli.

Altri materiali nella pagina facebook del blog: https://www.facebook.com/terradelrugby

 

Derby Day, che festa a Rovigo. Ovvero i rugbisti e il piacere di andare allo stadio

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Domenica scorsa si giocava al Battaglini la sfida numero 153 fra Rovigo e Petrarca, abbinata a Mogliano-San Donà per l’iniziativa del Derby Day che ha aperto la nuova stagione dell’Eccellenza. E’ stata – forse ancor più che nelle due precedenti edizioni – una grande e riuscita festa di tutto il rugby veneto.

Più di quattromila gli appassionati sugli spalti di Rovigo. Non il bagno di folla degli anni d’oro, quando il derby d’Italia riempiva l’Appiani, ma comunque un importante successo secondo gli standard attuali del nostro rugby, considerato anche che contemporaneamente giocavano il Benetton per il Pro12 (2.382 spettatori a Monigo contro Glasgow) e pure tutti i campionati minori in Veneto, al via proprio domenica.

Le società di calcio in Veneto non vantano medie di spettatori tanto lontane. C’è l’eccezione dell’Hellas Verona, mentre all’opposto ci sono anche situazioni estreme come i 104 paganti di Real Vicenza-Venezia di LegaPro domenica al Menti, pur sempre lo stadio che vide i gol di Pablito Rossi e Roberto Baggio. La fuga degli spettatori degli stadi da calcio è un fenomeno noto. Impressionano i dati, a fronte di una straripante esposizione mediatica che oscura tutte le altre discipline.

«Ma il rugby è di moda». In un certo senso è vero, ma soprattutto per il pubblico di una Nazionale che purtroppo non vince quasi mai. Grazie anche ad un vivace tessuto di club, in Veneto invece la passione esiste da sempre ed è pronta a riaccendersi con le vittorie e magari quando si crea l’evento. E poi alla gente di rugby piace ancora vivere lo spettacolo dal vivo, allo stadio*. E’ questione di messaggi, di valori, di cultura sportiva.

Perché si va al rugby con lo stesso spirito della scampagnata, della sagra paesana. Si portano i panini, ci si ferma al bar magari facendo la coda per una birra, ma con un sorriso. Non c’è club, neppure il più piccolo di provincia, che non curi con attenzione l’aspetto del magna-e-bevi. I prezzi sono popolari, abbordabili per tutti. Si sta all’aria aperta.

Il recente successo del minirugby ha favorito uno scambio generazionale al contrario: sono molti i papà e le mamme che ora si avvicinano all’ambiente per merito dei figli, primi in casa a dedicarsi alla palla ovale. Il Battaglini domenica era pieno di famiglie, di bambini. A cominciare dagli under10 che sono scesi in campo negli intervalli per i due derby nelle versioni baby (foto Corrado Villarà e Ottavia Da Re/Rugby San Donà). Con gli applausi di quattromila e con testimonial come Diego Dominguez e Stefano Bettarello: una giornata che i minirugbisti ricorderanno per tutta la vita.

E tifosi di diverse età si sono trattenuti nella “casetta” di Rovigo fino a sera tardi, attorno ad una lunga tavolata che vedeva insieme i padroni di casa delle Posse Rossoblù e gli ospiti delle Ombre Nere petrarchine. Impegnati fino all’ultimo in una sfida a colpi di sfottò, come durante la partita. Ecco l’atmosfera di Rovigo domenica, allo stadio del rugby. Le emozioni dello sport: qualcosa di semplice e di magico, allo stesso tempo.

Scommessa vinta per il Comitato Regionale Veneto, che ha fortemente voluto il Derby Day. Non era facile mettere insieme le esigenze di quattro club, anzi cinque visto che lo spostamento da sabato a domenica non è stato affatto gradito da Treviso. Reduce dall’impegno di Tbilisi, Rovigo da parte sua esigeva un giorno di riposo in più. Derby significa anche questo: non concedere nessun vantaggio all’avversario.

Marzio Innocenti una volta ancora ha ricucito mentre il CRV, in particolare con l’addetto stampa Gianluca Galzerano, si sobbarcava dietro le quinte del notevole sforzo necessario per l’organizzazione dell’evento. Il resto l’ha fatto il cuore appassionato di Rugbytown Rovigo. La Fir? Indifferente. Gavazzi in campagna elettorale aveva parlato di rilancio del campionato di Eccellenza, stiamo a vedere.

 

*Nota off topic, del tutto personale. Credo che fra il rugby in televisione e quello visto allo stadio ci sia la stessa relazione fra la musica riprodotta e quella suonata dal vivo: puoi ascoltare la miglior musica del mondo in un cd dei Radiohead, mentre è un’altra cosa l’energia che circola in una serata con gli amici al concerto di una band “indie”. Ecco, fra Springboks-All Blacks alla tivù e un Paese-Villorba dal vivo preferisco un Paese-Villorba dal vivo. (E se una volta nella vita puoi vedere Springboks-All Blacks allo stadio, o un concerto dei Radiohead, allora sentiti un privilegiato).

Tarvisium, dove il rugby è comunità. Una serie A molto speciale per le “magliette rosse”

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E’ con una certa eccitazione che l’ambiente della Tarvisium vive la vigilia della prima partita casalinga stagionale, domenica contro il Rangers Vicenza. Dalla serie A le “magliette rosse” mancano da 16 anni, cioè da quella retrocessione all’ultima giornata del torneo 1997/98. Ed ora per il club di San Paolo si tratta come di un nuovo esordio: quindi tanto entusiasmo e un pizzico di paura, come deve essere, anche se comunque il bel successo nella prima giornata a Rubano dà fiducia alla squadra allenata dagli ex azzurri Roberto Favaro e Walter Pozzebon.

Si gioca a Monigo (a proposito di corsi e ricorsi storici…), poiché il campo della Tarvisium non è omologato per la A. Pochi metri di distanza, ma la squadra dovrà adattarsi ad un terreno che non è quello dove gioca e si allena abitualmente, con diversi riferimenti nello spazio.

«Ci interessa salvarci magari già nella prima fase, sappiamo che da neopromossi non sarà affatto facile ma ci proviamo», spiega Guido Feletti, presidente proprio dal 1998, all’indomani della retrocessione dalla serie A, «comunque è già una grandissima soddisfazione vedere dove sono stati capaci di arrivare i nostri ragazzi, solo con le loro forze. Chi ha conquistato la promozione dall’anno scorso ora può dimostrare il proprio valore ad un livello più alto. E’ stato un lavoro a lungo termine cominciato ancora nel 2005, i frutti li raccogliamo oggi». 

L’idea della Tarvisium fu di creare una scuola tecnica interna, concentrandosi sulla qualità di un percorso formativo che va dagli under 8 fino alla prima squadra. Se nel 2010 giunge il riconoscimento del titolo italiano under 18, due ragazzi formati con la maglia rossa come Angelo Esposito e Tommaso Iannone arrivano intanto fino alla Nazionale azzurra, mentre altri si fanno onore in Eccellenza (Fadalti, Francescato, Zorzi).

In pratica la Tarvisium di oggi è fatta tutta di ragazzi cresciuti insieme sull’erba di San Paolo. E domenica a Rubano in campo c’erano anche due diciottenni, Pavin e Taffarello. Un’avventura in serie A molto speciale per le “magliette rosse”.

Non cambia la sostanza il fatto che per affrontare la nuova categoria si sia deciso di ricorrere ad alcuni rinforzi “esterni” e che, rompendo un tabù, la dirigenza abbia aperto quest’anno ai rimborsi-spese, seppur modestissimi. «Diamo semplicemente una mano a chi studia e ovviamente ai due argentini Stodart e Salandria, l’ambiente ha compreso il significato», precisa Feletti.

Perché la Tarvisium è sempre la Tarvisium. Un club che, come e più di altri, sa essere comunità. Nella continuità con un patrimonio di valori sentiti appunto come comuni, sulla scia di una ineguagliabile tradizione di successi giovanili, con figure di esempio a cominciare da “Ino” Pizzolato, quaranta straordinarie stagioni di rugby sulle spalle.

Con la sua esperienza e sensibilità Ino è l’animatore di quella scuola tecnica che opera in uno stile molto Tarvisium: confronto settimanale fra gli allenatori, nessuna gerarchia e lavoro di gruppo, tutti o quasi Ruggers nel cuore, da “Pier” Marchesin a Fabio Colbertaldo e “Gibe” Breda.

Un club con un senso di appartenenza custodito e difeso sempre, anche avanzando – direbbe De Andrè – “in direzione ostinata e contraria”. Non è un caso che persone cresciute nella Tarvisium vi facciano ritorno dopo prestigiose esperienze altrove. In questa stagione si è offerto per dare una mano nella preparazione atletica Fabio Benvenuto, in squadra è ritornato Enrico Pavanello dopo 13 anni di professionismo.

Il settore giovanile è in piena salute e la club-house continua a sfornare pastasciutte e panini, con il sostegno di un appassionato gruppo di volontari. Fra gli oltre 250 tesserati di diverse età anche illustri figli d’arte che portano cognomi tipo Checchinato, Francescato, Pavin, Kirwan.

«Passiamo per essere una società un po’ chiusa in se stessa», commenta Feletti, «da parte nostra si tratta solo di senso di appartenenza, di orgoglio per la maglia che non è quella nuova che ti puoi comprare ma quella, magari stinta o rattoppata, dentro la quale hai sudato e lottato assieme ai tuoi compagni. Noi siamo così, nel bene e nel male. Ma abbiamo buoni rapporti con tutte le società vicine, compresa Benetton che ci ha molto aiutato nel nostro passaggio a Monigo. E stiamo anche affiancando nella crescita nuove realtà come quella di Volpago del Montello».

Volteco Tarvisium-Rangers Vicenza si gioca a Monigo domenica alle 15,30, ingresso libero.

 

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Quando il Calcio Padova (r.i.p.) provò a giocare a rugby

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E’ stata una storia gloriosa quella dell’Associazione Calcio Padova, che la scorsa estate ha mestamente chiuso i battenti per fallimento. Una tradizione sportiva nata nel 1910 e che per un breve periodo ha visto il club biancoscudato sperimentare anche la palla ovale.

Il fatto è poco noto e risale agli anni Trenta, quando il football alla maniera di Rugby – di importazione britannica come il calcio, ma in netto ritardo nella diffusione rispetto al cugino – muoveva timidamente i suoi primi passi nel panorama sportivo italiano.

Sotto la presidenza dell’ingegner Ferruccio Hellmann l’Associazione Calcio Padova aveva cambiato denominazione sociale nel 1930, divenendo A.F.C. e cioè “Fascista”, in piena consonanza con la temperie ideologica del momento. Il progetto di Helmann era ambizioso e prevedeva anche l’apertura ad altre discipline, secondo il modello della polisportiva.

Mentre i biancoscudati del calcio approdano in serie A, l’A.F.C. si dota di una sezione di atletica e di una di “palla ovale”, come vogliono venga chiamato il rugby i sostenitori più zelanti del regime e dell’autarchia linguistica. Il club dà alle stampe anche una fanzine quindicinale con notizie e risultati degli atleti padovani nei tre sport. Nella foto in alto i biancoscudati sono ritratti assieme ai cugini del Guf Treviso in occasione di un’amichevole.

A conferma dell’interesse verso la nuova disciplina l’A.F.C. Padova chiama alla guida della neonata squadra uno dei grandi nomi del piccolissimo rugby italiano di allora, il milanese Renzo Maffioli, nazionale, al quale viene affidata anche la guida tecnica.

Responsabile della sezione palla ovale è Alessandro Pacchioni, ma il vero mentore della squadra si chiama Amedeo Fusari. Si tratta dell’uomo che ha “inventato” già nel 1927 i Leoni di San Marco, la prima realtà rugbistica di Padova (e la seconda in Italia dopo il milanese Sport Club Italia, a patto che sia vera la notizia riportata dalla Gazzetta dello Sport il 27 novembre di quell’anno); al momento Fusari è anche a capo del Direttorio Veneto Friulano della Federazione Italiana Palla Ovale cioè, diremmo oggi, il presidente del comitato regionale della Federugby.

La squadra si allena due volte a settimana, il giovedì sera e la domenica mattina al “Monti” di via Carducci. Nel 1933 l’A.F.C. esordisce nella Coppa Federale, la seconda divisione nazionale, che vince senza grossi affanni regolando nell’ordine Guf Firenze, F.G.C. Bologna, Testaccio Roma e infine la Pilonetto Torino nello spareggio disputato a Como.

I rugbisti vengono premiati all’Appiani prima di Padova-Torino, di fronte dunque al pubblico calcistico delle grandi occasioni.

Il collezionista Luca Raviele ci offre l’immagine della cartolina commemorativa dell’impresa, realizzata dall’industria padovana Aperol.

Nella stagione 1933-34 è la volta dell’avventura in serie A, alla quale partecipa anche l’altra squadra cittadina, il Guf Padova. Mentre gli universitari incappano in una serie di sconfitte, la matricola A.F.C. incomincia il torneo nel modo migliore, vincendo a Torino e Genova e pareggiando 0-0 in casa contro i campioni d’Italia dell’Amatori Milano.

Nel girone di ritorno il successo sul Torino e il pari contro il Genova, pur a fronte della ovvia sconfitta a Milano, assicurano ai biancoscudati secondi in classifica l’accesso al girone di recupero che seleziona la quarta partecipante alla fase finale assieme ai vincitori dei raggruppamenti. A quel punto scoppia però una querelle con la Federazione: l’A.F.C. si rifiuta di giocare in trasferta sul campo del Guf Napoli, che risulterebbe così ingiustamente favorito. All’ultimo momento viene designata la sede neutra di Roma. Troppo tardi però per poter organizzare la trasferta, secondo la versione dei padovani che quindi rinunciamo fra le polemiche. Partita vinta ai napoletani 6-0 a tavolino.

Complice l’abbandono di Hellmann, L’esperimento rugbistico del Calcio Padova tramonterà definitivamente nel 1935 dopo una seconda stagione di serie A chiusa mestamente a 0 punti.

 

Se ad allenare il Mogliano c’è un All Black campione del mondo…

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L’appuntamento era per lunedì, quando però su Mogliano si è abbattuto un temporale da tregenda. Ma questo pomeriggio, puntualissimo alle cinque, Wayne Smith era in tuta e scarpe da ginnastica pronto a calcare il verde prato del “Quaggia”, in mezzo a rugbisti di diverse generazioni nella bella atmosfera che si respira nei campi di via Ronzinella.

Una consulenza con i fiocchi per Ezio Galon alla guida dell’allenamento dei biancoblù, reduci nell’avvio dell’Eccellenza da un pari con San Donà e da un successo a Prato. Smith presterà il suo aiuto al Mogliano per due settimane, in forma gratuita. All’origine dell’esperienza relazioni strette nei tempi in cui l’All Black giocò a Casale, in particolare con Dino Menegazzi oggi team manager del club del Terraglio.

L’idea era nata l’anno scorso, in occasione della visita del neozelandese (ne raccontammo in questo post). L’offerta di un soggiorno veneziano, per Wayne e la moglie, ha fatto il resto. Ed ecco oggi l’allenatore campione del mondo in carica in campo a Mogliano, in un piccolo club di un paese quattordicesimo nel ranking mondiale dell’International Board.

Una storia di amicizie, resa possibile anche per quell’umiltà che è fra le doti più apprezzabili dei neozelandesi.

Wayne Smith, infatti, ha un curriculum di livello assoluto. Classe 1957, grande apertura dell’invincibile Canterbury degli anni Ottanta e 17 volte All Black, fece le prime esperienze da tecnico allenando il Benetton per due stagioni dal 1992 al 1994. Rientrato in patria, condusse Canterbury ad un titolo di Super Rugby. Dopo una stagione da capo-allenatore degli All Blacks nel 2000-2001, sceglie l’Inghilterra e il Northampton per poi essere richiamato nel 2004 nello staff tecnico della superpotenza neozelandese da Graham Henry.

Vince nel 2011 i Mondiali disputati nella stessa Nuova Zelanda. Passa quindi nello staff dei Chiefs, la franchigia della sua regione di nascita, il Waikato. E arrivano due titoli consecutivi di Super Rugby. Corteggiato dalle Nazionali di mezzo mondo, potrebbe ritornare a far parte dello staff degli stessi All Blacks in vista della prossima Coppa del Mondo. E’ considerato fra i massimi specialisti al mondo del gioco d’attacco.

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Tre Nazionali per Albert Anae. E’ il rugby globale, bellezza

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Lo staff tecnico del Benetton attende di sapere se Albert Anae sarà disponibile durante la finestra internazionale di novembre, quando i biancoverdi cederanno otto giocatori all’Italia di Jacques Brunel ed Henry Seniloli alla Nazionale delle Isole Fiji. Il tallonatore, infatti, è stato selezionato un po’ a sorpresa da Manu Samoa, squadra che peraltro incontrerà gli azzurri nel primo test-match di Ascoli.

Anae deve decidere se rispondere alla convocazione, una scelta che può condizionare in modo decisivo la sua carriera.

Ma al di là della vicenda personale del 25enne oggi a Treviso, si tratta di un caso emblematico del rugby professionistico attuale, in cui l’appartenenza nazionale è sempre più permeabile a favore di uno scenario ormai pienamente globalizzato.

Anae è nato a Wellington, in Nuova Zelanda, da una famiglia originaria delle Isole Samoa (i tatuaggi sono un aspetto molto sentito della tradizione degli arcipelaghi del Sud Pacifico). Si trasferisce giovanissimo in Australia ed è nelle file dei Queensland Reds che si afferma nel rugby, al quale l’ha indirizzato fin da bambino il padre Sio.

Un metro e 85 per 117 chili, veste la maglia dei Wallabies a livello giovanile (foto). L’anno scorso, mentre intanto sta giocando a livello di club con Bay of Plenty in Nuova Zelanda, viene chiamato dall’Australia per sostituire in raduno l’infortunato Polota-Nau. Non conquista tuttavia il cap.

E’ la presenza in un match ufficiale a livello seniores che l’avrebbe legato indissolubilmente ai Wallabies, mentre di fatto resta eleggibile per tre Nazionali.

Il profilo anagrafico rende possibile ad Anae – ma i casi simili sono numerosissimi – di giocare per l’Australia per formazione sportiva, per Samoa per discendenza familiare (qui, secondo il famoso articolo 8.1 del regolamento Irb, si può risalire di due generazioni fino ai nonni) e ovviamente per la Nuova Zelanda per nascita e cittadinanza.

Ma fra i motivi dell’arrivo in Italia del tallonatore (neozelandese? australiano? samoano? come dobbiamo definirlo?) c’è anche la prospettiva di un suo futuro approdo nella Nazionale azzurra. Così fece sapere quest’estate il presidente biancoverde Amerino Zatta, che recepiva un’indicazione della Fir sulla scelta degli stranieri delle due franchigie.

Infatti, tornando all’articolo 8.1, la residenza per 36 mesi consecutivi permette ad un giocatore di vestire la maglia della Nazionale del paese ospitante. In linea teorica nell’autunno 2017 Anae potrebbe fare compagnia ai vari Vunisa e Haimona in un gruppo azzurro che non disdegna certo “brain and brawn” di origine straniera.

Per il giocatore il dilemma dell’uovo oggi o della gallina domani. Rispondendo alla convocazione di Samoa potrebbe giocare le sua carte per andare ai Mondiali inglesi del prossimo autunno. Rinunciandovi farebbe la scommessa di riservarsi una prospettiva più gratificante a livello economico, ma solo in un futuro non immediato.

E’ il rugby globale. A maggio Tiziano Pasquali, pilone romano che si sta formando ai Leicester Tigers, non rispose alla chiamata per la Nazionale Emergenti azzurra. Tenendosi in tasca, così, la carta dell’Inghilterra. Non è il caso di indignarsi.

E intanto domenica Anae partirà da titolare in Ospreys-Benetton di Champions Cup, dopo l’esordio in biancoverde con i 14 minuti di venerdì scorso contro il Connacht.

Michael Cheika, l’allenatore-manager dal Petrarca agli Wallabies

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Secondo le previsioni Michael Cheika è stato nominato questa notte (mentre down under ovviamente era già mattina…) nuovo allenatore dei Wallabies australiani, una delle superpotenze del rugby mondiale anche se attualmente “solo” al numero 4 del ranking Irb.

Il tecnico di origini libanesi raccoglie l’eredità di Ewen McKenzie, dimissionario dopo una serie di risultati negativi – 11 sconfitte in 22 partite – e travolto anche da uno caso di messaggini sufficiente per creare imbarazzo alla latitudine di Sydney.

La scelta era scontata dopo Cheika si è affermato come grande protagonista del 2014. In due stagioni ha rovesciato le sorti dei Waratahs, portandoli dal decimo posto al titolo nel SuperXV nonostante le forti tensioni che hanno sempre percorso l’ambiente della Union del New South Wales.

Cheika, 47 anni, risulta così l’unico tecnico capace di vincere i massimi trofei in entrambi gli emisferi, avendo ottenuto l’Heineken Cup nel 2009 alla guida degli irlandesi del Leinster. Una sorta di “eroe dei due mondi”, quindi.

La carriera di allenatore dell’australiano è cominciata però in Italia, a Padova. Il Petrarca, attraverso Vittorio Munari, aveva un solido legame con il Randwick di Sydney, il club appunto di Cheika. Era il 1999, il club padovano targato Simac attraversava una delicata fase di ricostruzione.

Munari scelse di affidare la guida tecnica al giovane Cheika, che peraltro aveva già giocato nel nostro campionato a Livorno. «Era stato un atleta di grandissima intelligenza rugbistica e questo gli aveva permesso di essere una pedina fondamentale del Randwick, pur non arrivando alla Nazionale australiana», commenta Munari, «anzi della squadra di Sydney fu anche il capitano, e si pensi che era il Randwick con giocatori della personalità e del talento di Campese, Knox, degli Ella».

Il 1999-2000 fu un’annata avara di risultati in serie A, con i petrarchini esclusi dalla poule-scudetto a favore della sorpresa Overmach Parma, ed in Heineken Cup, con un cappotto di sconfitte in un duro girone con Tolosa, Bath e Swansea.

Pochi potevano immaginare allora un futuro di allenatore così brillante per Cheika. «L’esperienza padovana fu importante», ci raccontò Cheika qualche anno fa a Dublino, «mi sarebbe piaciuto rimanere ancora, ma fui obbligato a ritornare in Australia per stare più vicino a mio padre, in gravi condizioni di salute. Ricordo sempre le ottime strutture sportive del Petrarca, molti al mondo possono invidiare un centro come la Guizza interamente a disposizione del club. La voglia di visitare l’Italia ce l’ho sempre, magari per andare all’opera all’Arena di Verona. E a Padova ho sempre buoni amici, come Vittorio Munari e Corrado Covi».

Dopo la stagione al Petrarca  2000 l’ex terza linea fece decollare un’idea imprenditoriale vincente nella distribuzione di moda. Un’azienda con sedi a Sydney, Londra e Hong Kong: sport e business convivono nella figura di Cheika.

Il nesso non è casuale. La complessità del rugby moderno richiede che l’allenatore sia non solo un abile stratega del gioco ma anche un efficiente manager, con la capacità di gestire al meglio le risorse umane e di programmare con la vision ad ampio raggio di un dirigente d’azienda.

«Allenare non è il mio solo lavoro, credo sia giusto avere altri interessi e non vivere di solo rugby 24 ore su 24». E si tratta anche di indipendenza nelle scelte. «Alleno con il massimo impegno, ma è qualcosa che nasce soprattutto dalla passione. Non è una questione di necessità. Questo significa che subisco meno le pressioni perché non ho paura di perdere il posto, se qualche dirigente volesse impormi un giocatore gli potrei dire tranquillamente “f**k off”…»


I denti del Neck e la testa di Wayne (by Casae Rugby Club)

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A Wayne l’esperienza a Casale sul Sile lasciò il segno. Sì, gli amici, le tavolate, la scoperta di Venezia, ma non solo quello. Il segno indelebile di quelle due stagioni in maglia biancorossa Wayne lo porta in faccia. «In tutta la mia carriera non avevo mai passato infortuni seri, invece proprio quando stavo ormai per smettere… Vedete qui?», dice indicando un visibile avvallamento fra naso e fronte, «ecco, questi sono i suoi denti, i denti di Fabio. Mia moglie non me l’ha mai perdonato».

Era un venerdì sera come stasera, ma 26 anni fa. Allenamento prima della partita decisiva per la stagione. Domenica l’Eurobags in casa del Rovigo. Per la salvezza si soffre fino all’ultima giornata. Ultimissimo esercizio prima della doccia: incroci “a cento all’ora”, cioè alla massima velocità. Tocca a Wayne e Fabio Sartorato, “Neck” per i compagni…  sbam! Tutti si affrettano preoccupati a soccorrere il neozelandese, il faro della squadra, indispensabile per Rovigo.

Fabio, che ha avuto la peggio, resta a rantolare per terra. «E nessuno a chiedermi come stavo», ci scherza su oggi (dopo molti passaggi dall’odontecnico, anche in tempi recenti). Wayne? Verto. Neck? Qualche dente di meno. Tanta preoccupazione quella notte, perché senza Wayne…

Era un rugby un po’ meno programmato e un po’ più artigianale, un po’ meno palestra e un po’ più pastasciutte e birre dopo l’allenamento. E soprattutto schei pochissimi, quasi niente. Passione, gruppo, voglia di esserci per la tua città, per la tua generazione.

E così una trentina d’anni dopo c’è ancora il piacere di ritrovarsi e tirar tardi. Una reunion come certi gruppi musicali, per scoprire che in fondo nulla è cambiato, un po’ Buena Vista Social Club. Anzi Casae Rugby Club: ci sono lo stemma, un bicchiere personalizzato da non dimenticare a casa sennò paghi la multa, in arrivo la maglietta. Uomini di mischia da una parte della tavolata, trequarti dall’altra.

Stasera – cioè venerdì sera – nella taverna di Moreno Gasparini anche Wayne Smith dalla Nuova Zelanda. Ha vinto un Mondiale con gli All Blacks, e molte altre cose. Eppure allo stesso tempo è rimasto sempre anche uno della squadra, qui a Casale.

A proposito, quella partita Wayne poi la giocò, naturalmente con la testa adeguatamente fasciata. L’Eurobags vinse sul campo del Deltalat Rovigo per 19-18, e si salvò superando all’ultimo secondo Cus Roma, Amatori Catania e Doko Calvisano.

Il rugby non era moda. Era fango, freddo, fatica, e botte, pugni e bestemmie. Gerarchie forti: essere giovani non era un privilegio, il posto in squadra (e nel branco) dovevi conquistartelo dai veci che l’avevano strappato a quegli altri più veci prima di loro. Indietro fino ai pionieri del 1952 come “Tino” Busato, oggi presidente onorario del Casae Rugby Club a fianco di Franco Potente, uno dei quattro fratelli che nel tempo hanno difeso la causa biancorossa.

E gerarchie nel rugby italiano: L’Aquila, il Petrarca, il Rovigo erano club da scudetto, Casale una provinciale ruspante che però non lasciava facilmente punti sul proprio campo (ancora nel 2002 i biancorossi fermarono la striscia delle 24 vittorie consecutive del Milan di Dominguez e… Berlusconi).

«Esordii a 18 anni proprio all’Aquila, giocavo pilone e il mio avversario diretto era il mitico Cucchiella, nazionale», racconta Luciano Bellio, «loro in casa sapevano che avrebbero vinto senza problemi e Cucchiella con me fu un pezzo di pane. Durante la partita mi diede molti consigli: ragazzo, il braccio più disteso, il piede devi metterlo così… Quando fu il momento della partita di ritorno, ero tranquillo. Invece alla prima mischia mi arrivò una scarica di pugni: Cucchiella fu una furia per tutta la partita, giusto per mettere le cose in chiaro. La gavetta era già finita».

E il giovane era anche, inevitabilmente, la vittima predestinata degli scherzi più crudeli. Come quando al ragazzo ancora a digiuno delle cose della vita (sarebbe diventato un gran bel giocatore, da serie A) il dirigente ordinò oltre alle visite mediche di rito un altro esame indispensabile per ottenere l’idoneità: il pap test.

Il giocatore si presentò regolarmente in ospedale a Treviso, accomodandosi in sala d’attesa fra distinte signore fino a quando un infermiere non gli avrebbe detto: «Ceo, manda qua to sorea». I compagni di squadra ridono ancora.

Storia di Alberto Danzi e di un altro rugby. Un libro firmato Barbini-Sbrocco

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Ci voleva la sensibilità di Elena Barbini e Giorgio Sbrocco per raccontare, con parole e immagini, il mondo del wheelchair rugby. “Vincenti” è un libro di carattere istituzionale e divulgativo, nei confronti di uno sport che sta conoscendo un rapido sviluppo in Italia. Ma è anche e soprattutto una collezione di ritratti dedicati agli azzurri del rugby in carrozzina.

Storie di sport, quindi di successi e di sconfitte, di sfide, di ambizioni, di sacrifici, di rivalità e di senso del gruppo.

I due autori in questo mondo vivono da sempre e il loro sguardo è attento e empatico, e al contempo disincantato nella misura necessaria a cogliere la giusta distanza per la messa a fuoco di questo rugby “altro”.

Venti tranche de vie intensissimi firmati da Giorgio Sbrocco e affiancati dalle immagini di Elena Barbini, la quale esplora nel gesto sportivo le emozioni dei protagonisti, come traspaiono soprattutto dalle espressioni dei volti. Al pari della disciplina a cui si ispira, il wheelchair rugby ha la sua essenza nel contatto e non esclude l’intimidazione fisica. Ciò che si mette in gioco, come sempre nello sport, è il confronto con i propri limiti.

“Vincenti. Quelli del rugby con le ruote. Sport di storie e di vita” (Piazza Editore, 192 pagg. con traduzioni in inglese, 20 euro) verrà presentato mercoledì 5 novembre alle 18,30 presso la sede del Petrarca Padova, alla Guizza. Per gentile concessione pubblichiamo qui un estratto del libro, il ritratto dell’atleta veronese Alberto Danzi. Le foto in questo post sono di Elena Barbini.

 

«Rimettermi in piedi. Non so se accetterei»

La barba è di qualche giorno ma curata, capello sotto i due centimetri con un accenno di striature. Colore dominante: il nero. T-shirt, pantaloni, scarpe e carrozzina. Forse anche gli occhi, a meno che non sia l’effetto perverso di un tramonto estivo. Si chiama Alberto, ha 26 anni. Lo sguardo dice: non chiedere, non sforzarti di trovare le parole. So già cosa vuoi sapere, te lo racconto.

«L’ultima volta che ricordo di essere stato sui miei piedi? Avevo poco più di due anni, erano le dieci di sera. Saltellavo felice sul sedile posteriore della Bianchina di mio nonno che era alla guida. Accanto a lui la nonna. Forse canticchiavo. Eravamo in coda a un semaforo. La voce di mia nonna che mi ordina di mettermi a sedere è l’ultimo ricordo che ho di lei. Quando l’auto ci investì era appena riuscita a prendermi in braccio ed era quasi fuori dall’auto. L’impatto la uccise sul colpo. Mi trovarono a una decina di metri, di distanza che piangevo immerso fino alle spalle nelle acque fetide di un canale di scolo. Ero l’unico sopravvissuto. Anche il nonno era morto schiacciato nell’impatto».

Viene dalla provincia di Verona, da Nord, dalla Valpolicella, patria di nobili vini rossi possenti, di gente franca e sincera. Dura, almeno in apparenza. In verità tenace e caparbia. Custode gelosa di valori antichi e dalle radici profonde e salde. Quelle che secondo Tolkien: non gelano. «Dicono di me che parlo poco. Hanno ragione. E che sono riservato. Vero. È che spesso trovo bellissimo lo stare da solo o, al massimo condividere i momenti di pace o di passione con le persone che amo. Uscire la sera per inseguire cose, momenti e occasioni, con il miraggio di aggrapparsi a qualche scampolo di divertimento rubato, al rimorchio di compagnie di giro votate al “facciamo qualcosa per dimostrare di essere vivi” non fa per me. Ho altro. Di molto più prezioso e raro. Ho Jessica e Camilla».

Jessica l’ha sposata a Desenzano, sulle rive del lago di Garda, lo scorso 27 settembre, presente una folta rappresentanza dell’Italia del rugby in carrozzina. Camilla è un rottweiler di sei anni che ha addestrato personalmente dopo aver conseguito la necessaria qualifica. La mattina, mentre la prima ancora dorme, Alberto esce di casa con Camilla che traina la sua carrozzina modello basket. «Quella con le ruote spioventi e il passo più largo di quelle per il rugby», precisa. Rientrato, sveglia la moglie e prepara la colazione. Jessica è una grafica, formata in una delle migliori scuole del settore. Per vivere vende hamburger e patatine in un ristorante (?) di una nota catena di fast food. «Avremo figli, almeno due», assicura. «La famiglia è importante, i bambini sono la testimonianza che un futuro, magari migliore, è possibile».

Aveva diciotto anni Alberto, quando se n’è andato a vivere da solo. Gli studi li aveva abbandonati alla fine del terzo anno dell’istituto per ragionieri. «Non vedevo il senso di quanto andavo facendo. Non trovavo alcuna giustificazione valida che mi portasse a impegnarmi per imparare cose che, di sicuro, non avrei mai utilizzato».

Però dopo un paio d’anni di stop è tornato sui banchi delle serali e ha tagliato il traguardo della maturità. «Ho fatto contenta mia madre. Ma quando si è cominciato a parlare di iscrizione all’università sono stato irremovibile. Non se ne parla. Mia madre se n’è fatta una ragione. Un figlio ragioniere basta e avanza, cosa te ne fai di un dottore? Le chiesi l’ultima volta che parlammo del mio futuro accademico. E tutto finì come doveva finire. Nonostante i numerosi momenti di tensione riconosco a mia madre il grande pregio di non avermi mai compatito. L’autonomia che ora possiedo è in gran parte merito suo e dei suoi insegnamenti».

Dal giorno del grande passo vive in un grande appartamento al piano terra di un caseggiato del centro del paese. «Non ci ho fatto lavori particolari», precisa. «Giusto uno scivolo per entrare, uscire e una doccia con accessi sicuri e ancoraggi di sicurezza. Quest’ultima installata dopo una notte passata disteso a terra a causa di una caduta dovuta ad un banale errore di posizionamento del mezzo».

Prima di Jessica «tre o quattro storie, poca roba, niente di impegnativo. Poi un giorno capitai a Peschiera e la vidi…». Prima del rugby e della Nazionale è stato un susseguirsi di tentativi e di sfide. «Fino ai cinque anni l’unica parte del mio corpo che riuscivo a muovere è stata la testa», ricorda con un sorriso beffardo che gli si disegna sulle labbra in maniera quasi impercettibile ma evidente. «Avevo dieci anni quando ho  cominciato a giocare a basket. Prima di smettere nel 2013, dopo due titoli italiani e un posto da titolare in serie A2, rapito dal rugby, ho provato di tutto: due anni di monosci, altrettanti di hand bike e poi lezioni di “pianola” e una passione sfrenata per il car tuning». (…)

«Al rugby mi ha portato il mio amico Giuseppe Testa. Fu sufficiente una seduta di allenamento per convincermi che quello sarebbe stato il mio sport. È vero, toccava andare a Padova per gli allenamenti. Ma non potevano essere qualche decina di chilometri a farmi cambiare idea. Quando comunicai la mia intenzione di giocare anche a rugby ai dirigenti dell’Olympic Verona, la mia prima società di basket, mi fu risposto che le due attività non potevano coesistere. Con un certo dispiacere restituii la divisa e il resto del materiale che avevo in dotazione. La scelta era stata fatta ed era definitiva».

Quanto al perché: «Per tante cose. La più banale: per noi tetraplegici è più facile del basket, ci sono meno cambi di direzione. E poi i blocchi! Gli impatti, il contatto fisico, la consapevolezza che per fermare la palla devi fermare l’avversario, che per difendere devi avanzare, che se non ce la fai qualcuno arriva in tuo aiuto. Mica perché è obbligato a farlo da qualche norma del regolamento. No! Semplicemente perché conviene a lui e alla squadra. Trovo questo modo di intendere lo sport di squadra semplicemente fantastico, affascinante».

Alberto ha 2.0 di classificazione funzionale per il rugby, secondo quanto regolamentato dal board internazionale IWRF. «All’ultima valutazione medica avevo pensato di barare», confessa. «Di fingermi particolarmente affaticato in allenamento, di commettere errori, di sbagliare prese».

L’obiettivo? «Farmi abbassare il punteggio. Con meno di 2 è più facile trovare posto in squadra. Ma non ci sono riuscito. A fregarli, intendo. Mentre ero seduto sul bordo del lettino nell’ambulatorio e parlavo con uno dei due medici della commissione che doveva valutare il grado della mia disabilità, l’altro, che stava dietro di me, mi ha spinto. Colto alla sprovvista, ho reagito istintivamente e ho resistito senza perdere l’equilibrio. Addominali: buoni. Fu il responso e confermarono i 2 punti di valutazione. La prossima volta mi lascio cadere. Giuro! Perché sono sicuro che se arrivo a 1.5, ai prossimi Campionati Europei non mi lasciano a casa come hanno fato un anno fa ad Anversa». Sorride mentre lo dice, poi ride. Non è credibile, è evidente.

«Vuoi sapere come vivo e come ho vissuto?», chiude anticipando ancora una volta la domanda che avevo in animo di porre. «Bene. Non male. Insomma: non vorrei che la prendessi come una forzatura però…». Palpebre abbassate, reclina leggermente il capo verso destra, inspira profondamente: «Insomma: se un giorno la scienza dovesse scoprire il modo di rimettermi in piedi, non so se accetterei. Non credo che…». Un altro respiro profondo, ma stavolta gli occhi sono spalancati e trasmettono entusiasmo. «Anzi, ne sono certo; rifiuterei! Questa è la mia vita e non la cambio. Mi piace com’è».

Rinuncia Lyons, il rugby a Mestre fallisce per la seconda volta

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I Lyons VeneziaMestre si sono ritirati dal campionato di serie B. E’ questo l’epilogo – peraltro atteso e inevitabile, visti gli eventi recenti – della crisi societaria che ha colpito il club amaranto-oro e che aveva messo a repentaglio già la partita di domenica scorsa contro il Silea.

La squadra ha deciso di stringere i denti e di scendere in campo per l’ultima volta di fronte al proprio pubblico, cogliendo peraltro un buon pareggio. Ieri sera in programma la riunione decisiva per la società presieduta da Massimo Ballarin, con l’esito della rinuncia alla partecipazione alla serie cadetta. I Lyons lasciano così un posto vuoto nel girone C composto da squadre venete, dal Ferrara e dalle due lombarde Caimani e Bassa Bresciana.

Per la seconda volta in soli 4 anni a Mestre il rugby seniores incappa nel fallimento: i Lyons raccoglievano l’eredità del VeneziaMestre scomparso nel 2011 sempre a causa dei debiti. Intanto continuerà senza problemi nell’impianto di Favaro l’esperienza dello Junior VeneziaMestre, che si occupa del settore giovanile.

«Da oltre un anno seguiamo la vicenda dei Lyons, le notizie che ci sono giunte sui problemi economici della società sono state sempre più preoccupanti», commenta il presidente del Comitato Veneto della Fir, Marzio Innocenti«la piazza di Venezia e Mestre è importante per tutto il nostro rugby ed è una realtà dove si svolge un’ottima attività giovanile. Siamo pronti a fare tutto il possibile perché in futuro possa nascere una prima squadra su solide e sane basi».

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Franco Smith, gli Springboks e le occasioni perdute del rugby italiano

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Il ritorno a Treviso era stato pensato per luglio, perché dopo intensi allenamenti su due ruote Franco Smith si era posto come obiettivo la partecipazione alla Gran Fondo Pinarello. Appuntamento rimandato, in nome ovviamente del rugby e del moltiplicarsi degli impegni di tecnico in Sud Africa. Ed oggi, dopo SuperXV e Currie Cup nello staff dei Cheetahs, l’ex allenatore del Benetton si lancia in una nuova avventura da… “docente universitario”.

«Da qualche settimana mi occupo degli Shimlas per prepararli alla prossima Varsity Cup che comincia a febbraio, un torneo di ottimo livello, la base di partenza per molti Springboks», spiega al telefono da Bloemfontein proprio a conclusione di un allenamento con la squadra di UFS, l’ateneo del Free State, «è ciò che mi piace fare di più: curare un progetto di lungo termine, per sviluppare i giovani, scoprire nuovi giocatori. Cioè far crescere la base passo dopo passo, Varsity, Currie Cup, e così rilanciare i Cheetahs in SuperXV, rivedendoli competitivi magari nel 2016».

«Treviso ci manca, era ormai la casa per tutta la mia famiglia. Ma apprezziamo anche ciò che in Italia non era possibile fare: i safari, i barbecue nei grandi spazi aperti… Franco Jr. e Jean si sono inseriti bene a scuola e naturalmente giocano a rugby, entrambi apertura. Voglio ringraziare gli allenatori delle giovanili del Benetton, perché i miei figli (rispettivamente 14 e 11 anni, ndr) si sono dimostrati già dello stesso livello rugbistico rispetto ai pari età sudafricani, forse anche un passo più avanti».

Quasi un anno è ormai trascorso dal divorzio fra il tecnico e Treviso, un anno nel quale, peraltro, il club biancoverde ha conosciuto il sapore della vittoria solo tre volte.

Resta in Franco Smith l’amarezza per quello che sente come un progetto giocoforza interrotto. «Cinque anni fa avevo sottoposto un programma per far sì che il Benetton potesse avere risultati duraturi nel tempo, era indispensabile far crescere giocatori under 23 ed inserirli progressivamente in prima squadra. Sono questi problemi di ricambio che Treviso affronta oggi. Dispiace se ripensiamo al livello che avevamo raggiunto nella terza stagione di Pro12, quando eravamo ormai in grado di giocare alla pari con ogni avversario europeo. Da un altro punto di vista è una soddisfazione vedere certi nostri ragazzi capaci di essere protagonisti nelle squadre di Premiership».

«Avrei voluto lasciare un’eredità migliore. Auguro al Benetton di cominciare a vincere al più presto, ma per costruire un gruppo, uno stile di gioco e una mentalità ci vogliono non settimane o mesi, ma anni. Lo sperimentiamo anche noi qui ai Cheetahs (solo penultimi nel Super Rugby con record 4-1-11, quinti in Currie Cup con 3-1-6, ndr), stiamo ricostruendo e sono indispensabili tempo e programmazione. Nel rugby italiano c’è molta politica, qualsiasi cosa diventa difficile da realizzare: ecco, tutto questo non mi manca proprio».

Invece 17 anni sono trascorsi da quando Franco Smith partecipò da esordiente al tour europeo degli Springboks con tappa anche a Bologna, dove gli azzurri vennero sconfitti 31-62 (ma per l’apertura di Lichtenburg il debutto in maglia verde-oro sarebbe arrivato nello straripante 68-10 di Murrayfield poco dopo, il 6 dicembre 1997). Ed è con assoluto disincanto verso le sorti dell’Italia che il sudafricano guarda al prossimo appuntamento di Padova.

«Ora come ora gli Springboks sono al di fuori della portata dell’Italia, tanto più che gli azzurri avranno prima due altri test molto duri contro Samoa e Argentina. In altre occasioni poteva succedere che il Sud Africa non si impegnasse al 100% e che la differenza si riducesse. Non questa volta. Prima del Mondiale non ci saranno che una decina di partite, Heyneke Meyer esigerà il massimo di intensità da ognuno. Bisogna fissare il gioco e per di più l’ambiente è caricatissimo dalla vittoria contro gli All Blacks. Gli Springboks sono fortissimi fisicamente, gli azzurri dovranno innanzitutto reggere l’impatto e dovranno farlo per tutti gli ottanta minuti, senza i black-out o i cali nel finale che sono tipici delle squadre italiane».

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Simone Favaro, lo sblocca-Italia. «Man of the match? Lo meritava Haimona»

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Per sbloccare l’Italia, reduce da nove sconfitte consecutive, ci voleva qualcosa di forte. Qualcosa come la forma ritrovata di Sergio Parisse, come la sostanza in regia del neozelandese di Kelly Haimona, ma soprattutto il rientro di Simone Favaro, man of the match ed esempio per i placcaggi, la voglia e… l’ignoranza (capiamoci, per un rugbista è un complimento).

La terza linea di Zero Branco, che ha anche firmato la meta dell’inizio della rimonta contro Samoa, tornava a vestire la maglia azzurra dopo un lungo infortunio, al pari del compagno di reparto e di squadra Alessandro Zanni. «Siamo diversi ma complementari, abbiamo giocato tanto insieme e ci capiamo», spiega il friulano del Benetton.

Lui, Simone, che non ama finire sotto i riflettori, fa di tutto per evitare l’imbarazzo di parlare con la stampa. Arriva quando i compagni stanno già entrando nel pullman. «La meta? Io ho solo fatto il mio, eravamo in tanti a spingere e mi sono trovato lì. Niente di che. E poi non sono uno di quelli che rimarrà nella storia per i punti segnati. Comunque una grande soddisfazione essere andato in meta per la prima volta con l’Italia, ma soprattutto essere ritornato in squadra e avere ritrovato la vittoria. Samoa non era certo un avversario facile».

Quanto al riconoscimento di man of the match – assegnato dalla televisione DMax, quindi dalla coppia Munari-Raimondi – Favaro dice di… non averlo meritato. Ed è sincero, la sua non è falsa modestia.

«Il migliore in campo è stato secondo me Haimona, che all’esordio ha giocato con grande sicurezza», spiega, «e poi anche Parisse, che da vero capitano ha condotto la squadra nelle situazioni più difficili. Il momento più bello è stato alla fine della partita, quando abbiamo lottato per evitare la meta di Samoa. Non sarebbe cambiata la partita, ma proprio per questo è stato importante: abbiamo dimostrato il nostro carattere».

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